800malati in Italia, 5 anni di massima aspettativa di vita per i casi più gravi, 0 cure. Sono i numeri di Fondazione REB, il progetto scientifico nato anche grazie a Debra Onlus, per promuovere la ricerca sull’Epidermolisi Bollosa (EB), una malattia rara caratterizzata da fragilità della pelle e delle mucose che porta alla formazione di lesioni bollose a seguito di sfregamento o pressione.
Un progetto, il solo in Italia, che cerca di aiutare i bimbi farfalla – chiamati così per la fragilità della loro pelle – a poter scoprire la bellezza di un abbraccio e di una carezza.
Esistono diverse forme della malattia. Alla variabilità clinica corrisponde una notevole eterogeneità genetica. Ad oggi sono stati identificati numerosi geni responsabili delle varianti di EB e sono state formulate, e in parte testate, alcune strategie di cura.
Ci sono però ancora grandi lacune di conoscenza che frenano lo sviluppo di terapie efficaci e l’attivazione di sperimentazioni cliniche allargate per le persone con EB. Per questo Fondazione REB ha bisogno di un grande sostegno, e anche per questo si era messa in moto la terza edizione di ThinkTO. Il format, creato da Think (agenzia pubblicitaria di Busto Arsizio), che si sarebbe dovuto svolgere il 20 marzo… coronavirus permettendo.
Chiaramente, l’evento è solo rimandato a tempi migliori. Ma in attesa di poter tornare a riunirci e nutrirci di scambi e reciprocità, pubblichiamo la nostra intervista a Cinzia Pilo, presidente di Debra Onlus e Fondazione REB. Perché i bambini farfalla non possono attendere la fine dell’epidemia.
Iniziamo dalla sua storia. Come avete affrontato la scoperta dell’Epidermolisi Bollosa in vostro figlio?
«Nel 2010 è nato Luca, il mio secondo figlio. È nato di parto naturale, senza nessuna avvisaglia. I medici si sono accorti subito della presenza della patologia però, perché lui è nato senza pelle delle gambe. Quindi è stato immediatamente ricoverato in terapia intensiva dove è rimasto per due mesi. Alla fine di questo periodo è stato evidente che non vi era molta competenza nella gestione di questa patologia.
Quando è stato dimesso l’abbiamo portato a casa, ma non ci è stata data nessuna speranza. Ci è stato anche detto di scordarci che ci sarebbero potuti essere miglioramenti o trattamenti. Tuttavia, io e mio marito abbiamo deciso di non arrenderci, abbiamo pensato che fosse il caso di lottare per nostro figlio e anche per tutti gli altri con questa malattia. Io, in particolare, mi sono ripromessa che nessun bambino avrebbe più sofferto come è successo a mio figlio durante i primi mesi, nei quali non aveva più pelle in nessuna parte del corpo. Gli accessi venosi gli venivano presi sulla testa, non aveva più un lembo di pelle in tutto il corpo.
Quindi, con questa promessa, mi sono data da fare con Debra Italia Onlus e ne sono diventata presidente nel 2015. In quello stesso anno sono diventata anche presidente globale di Debra International. Questo, dopo qualche anno nell’ambito dell’associazione che appunto si dedica soprattutto all’assistenza alle famiglie, ai malati e al sostegno ai centri ospedalieri. Nel frattempo, nel 2012 ho fondato all’Ospedale Maggiore di Milano, il Centro EB. Questo si è aggiunto a quello preesistente che era al Bambino Gesù di Roma.
Nel frattempo abbiamo sostenuto fortemente un altro centro a Bari, perciò ora possiamo dire di avere tre centri in Italia che si dedicano alla malattia: uno a Milano, uno a Roma e uno a Bari. È fondamentale, perché questi bambini e queste famiglie non hanno possibilità di spostarsi. Le visite e i day hospital richiedono giornate intere, a volte richiedono quasi di passare una notte. Quindi avere questi centri in tutta la nostra penisola è importante, per essere più vicini a tutti, anche al sud».
A proposito di pediatri e medici in Italia, quanto questa malattia è riconosciuta?
«La malattia è riconosciuta solo nei centri che le ho citato. Chiunque nasca negli altri posti viene solitamente dirottato in questi centri principali dove ci sono ormai delle équipes multidisciplinari che non sono solamente di dermatologi. Questo perché l’Epidermolisi Bollosa è una malattia genetica rara della pelle che sì, in prima istanza interessa i dermatologi, ma ha complicanze e complicazioni a livello sistemico, soprattutto nelle varianti più gravi come quella distrofica che è determinata dalla carenza di collagene settimo. Questa carenza interessa anche le mucose interne della bocca, dell’esofago, del tratto finale del colon. Lì ci sono complicanze ulteriori dovute alla fibrosi che, nella distrofica, determina la chiusura delle dita delle mani e dei piedi e quindi la perdita di questi arti.
Inoltre c’è un’infiammazione che persiste e che rende difficile, a volte impossibile, la guarigione delle ferite che si formano. Ciò con l’andare del tempo, dopo pochi anni e solitamente verso la maggiore età, provoca la comparsa dei primi carcinomi squamocellulari, ovvero cancro alla pelle. Si tratta di un cancro normalmente difficile da curare che viene approcciato con degli interventi chirurgici. Queste complicanze spesso hanno un esito letale: le aspettative di vita, ad oggi, non superano i 25/30 anni di età».
Per quanto riguarda la gestione quotidiana, il trattamento può durare dalle 3 alle 4 ore, è vero?
«Sì, non esistono trattamenti, l’unica cosa che si può fare è praticare delle medicazioni quotidiane in via conservativa. Dove non c’è la pelle, si forma una lesione e ci sono delle bolle (per questo “bollosa”). Queste bolle devono essere svuotate da un siero, perché altrimenti tendono ad allargarsi. Quando si svuotano si formano delle lesioni e vanno coperte. E chiaramente nessuno di noi può restare senza un organo fondamentale come la pelle, che serve a proteggersi da tutti gli agenti esterni. Queste cure vanno applicate quotidianamente, rientrano nelle medicazioni cosiddette avanzate e si usano garze autoadesive che si applicano sulla lesione a seconda della dimensione. Vanno fatte tutti i giorni».
Quindi voi genitori dovete diventare caregiver dei vostri figli…
«Sì, questo è un aspetto di grande impatto della malattia. Senza dimenticare l’impatto a livello psicologico per i bambini che hanno una vita sociale molto ristretta: non possono correre, non possono fare nessuno sport e hanno difficoltà a mangiare e a vestirsi. Tutto ciò che per noi è normale, per loro diventa un’impresa molto difficile. Quindi questa malattia ha un impatto psicologico notevole.
In più, c’è l’impatto psicologico sulla famiglia che, evidentemente, esiste in ogni malattia, soprattutto per le malattie genetiche rare, ma in particolare per questa che ha delle implicazioni di carattere organizzativo, logistico, e anche addirittura di competenze che le famiglie sono costrette ad acquisire. Ogni famiglia infatti deve immediatamente capire la dimensione della malattia – a pochi mesi dalla nascita di questi bambini – rendendosi conto di avere a che fare con una malattia sconosciuta di cui non avevano mai sentito parlare (come noi) e devono imparare immediatamente a fare queste medicazioni. Tutto ciò ha degli impatti notevoli. Molte famiglie purtroppo non resistono, io conosco tanti genitori che si sono separati.
Comunque sì, bisogna imparare a fare queste medicazioni che, a seconda della gravità del caso, possono durare dalla una alle 4 ore, in particolare quando si fa il bagno. Il bagno è uno dei momenti peggiori. Bisogna immaginare l’acqua sulla ferita… per un corpo senza pelle, mettersi nell’acqua è un dolore insopportabile. Si fa una volta a settimana e le urla di questi bambini fanno venire la pelle d’oca».
Ho visto che anche l’abbigliamento è importante, viene implicato ogni aspetto della vita…
«Esatto, anche gli indumenti devono essere senza bottoni, senza contatti che provochino abrasioni, indumenti facilmente indossabili senza sfregamenti, anche le cuciture interne degli abiti possono essere un problema. Anche il cibo non può essere duro, questi bambini non possono mangiare pane, patatine, crackers. Il cibo deve essere morbido. È tutto molto difficile, ripeto. Qualsiasi cosa che per qualsiasi persona è normale, per questi bambini e le loro famiglie diventa una grande impresa».
Quando i bambini diventano consapevoli di questa malattia? Come la vivono?
«I bambini sono eccezionali, loro vivono e nascono con questa condizione, non hanno mai conosciuto altro. Realizzano da subito la loro diversità, già da quando iniziano a relazionarsi con i loro coetanei, ma anche parenti, fratelli o persone incontrate nell’ambito della vita sociale. Perché questa malattia è caratterizzata anche da visibilità esterna: i bambini affetti da questa malattia si vedono, la loro “diversità” desta un’attenzione indiscreta da parte di chi li incontra. Chi li vede per la prima volta si chiede se siano ustionati o vittime di violenze familiari. Ed è davvero brutto questo aspetto.
Insomma, loro capiscono di avere questa malattia. La famiglia deve avere una grande forza nella gestione degli aspetti della vita sociale e sapere come meglio inserirli negli ambiti della vita che hanno a che fare anche con i coetanei. Devono andare a scuola e, se hanno la fortuna di trovare delle classi con compagni intelligenti, si possono trovare anche bene. Per quanto riguarda il mio caso personale, posso dire che mio figlio va alle elementari e ha trovato una classe con bambini e insegnanti molto bravi, quindi lui è molto ben inserito e ben voluto.
Questi bambini normalmente hanno grande sensibilità ed empatia, è difficile che non si facciano voler bene, normalmente sono amati perché chi li vede si rende conto delle grandi difficoltà alle quali vanno incontro. Poi hanno una grande forza di volontà e sono delle persone eccezionali, insegnano tanto a chiunque abbia a che fare con loro, hanno una forza di volontà e un amore per la vita che sono d’ispirazione per chiunque».
A lei, nello specifico, cosa ha insegnato suo figlio?
«Io, da quando mio figlio è nato, tendo a non lamentarmi più di niente, qualsiasi cosa diventa irrisoria. Questo fa trovare anche la forza di lottare per loro, per fare in modo che abbiano una vita migliore. Poi è chiaro che ognuno reagisce diversamente, alcuni per esempio si lasciano prendere dalla depressione, nel nostro caso non è stato così».
Su un vostro post parlavate della sperimentazione EB101 che darà i primi risultati in primavera…
«A gennaio 2020 si è tenuto il più importante convegno mondiale a Londra, al quale ho partecipato. In quell’occasione si sono esposte novità e aggiornamenti sulla ricerca dell’Epidermolisi Bollosa. Abbiamo avuto grandi speranze e notizie molto positive. Gli ambiti della ricerca sono diversi e spaziano da approcci di tipo topico, quindi che riguardano la cura delle ferite, agli approcci più completi che riguardano la terapia genica, ovvero la manipolazione genetica della pelle, la sua riformulazione in ambulatorio e i trapianti, così come la possibilità di far retrocedere le cellule del corpo a cellule staminali per “riprogrammare” il difetto genetico. Sono tutti approcci molto promettenti e richiederanno ancora molti anni di studio.
Ci sono due novità più promettenti in assoluto: la prima riguarda il medicinale Losartan attualmente utilizzato in età pediatrica, in commercio, per malattie cardio vascolari. È un farmaco in grado di influire positivamente sulla fibrosi, ovvero quel meccanismo che comporta la chiusura di dita di mani e piedi e dell’esofago. Questo farmaco è utilizzato in via sperimentale da anni in Germania e in Austria e sta avendo dei buoni risultati.
La seconda novità riguarda un approccio un po’ più sofisticato, una terapia genica in vivo. In pratica, è allo studio una crema che contiene un vettore retrovirale in grado di trasformare linformazione genetica da applicare sulla pelle per correggerne i difetti. Questa crema è già in sperimentazione con risultati molto promettenti negli USA e stiamo facendo di tutto per cercare di portarla in Italia. È la terapia più promettente in assoluto perché non è invasiva, non è un trapianto, ma potenzialmente porta agli stessi risultati».
Avete realizzato il registro italiano per persone affette da Epidermolisi Bollosa
«Dopo qualche anno in cui ho avuto a che fare con questa malattia, mi sono resa conto che, come tutte le malattie genetiche rare, ciò che manca è la casistica. Per questo è necessario creare un registro, per avere dati e informazioni il più complete possibili sulla malattia. Non sono solo un data base in Excel ma strumenti molto più sofisticati. Si tratta di veri e propri portali web che consentono di registrare informazioni e dati importantissimi per capire meglio la malattia, fornire dati e poterli scambiare tra i ricercatori a livello mondiale. Anche per questo motivo abbiamo creato una Fondazione apposita, Fondazione REB, nel 2017. Lo scopo è di rimuovere ostacoli a livello scientifico, creare e raggruppare informazioni e poterle scambiare a livello mondiale tra tutti i ricercatori. Questo per accelerare la ricerca scientifica e portare terapie innovative in Italia».
Quali sono le maggiori necessità di Fondazione REB? Come vi si può aiutare?
«Ciò che ci serve maggiormente sono i fondi. Queste malattie non vengono finanziate a livello pubblico, sono orfane da questo punto di vista. Tramite le donazioni quindi possiamo mantenere il registro, mantenere i centri, finanziare i ricercatori che vi lavorano e portare le terapie sperimentali in Italia.
La seconda cosa di cui abbiamo bisogno è attenzione da parte delle istituzioni per questa malattia. Chiediamo che le medicazioni fornite vengano distribuite in modo uniforme in Italia in modo tale che tutti abbiano le stesse cure, da Nord a Sud. Servono anche servizi domiciliari: sono fondamentali anche per permettere a genitori e famiglie di avere una vita normale. Altrimenti i genitori rischiano di dover lasciare il lavoro».