Il 12 marzo Boris Johnson si è piazzato davanti alle telecamere è ha annunciato al mondo intero che invece di andare a destra, e seguire il calcolato e rassicurante piano d’azione dei suoi predecessori, l’Inghilterra avrebbe preso la sinistra verso nuove terre inesplorate.
Il giorno dopo i giornali titolavano tutti con la stessa frase: “Boris: many families will lose loved ones” Daily express, “Many loved ones will die” Daily Mail, “Many more families are going to lose loved one” The Daily Telegraph…
Un’affermazione che ha letteralmente fatto il giro del mondo, raccogliendo indignazione lungo la sua scia. In quel fatidico discorso infatti, il primo ministro inglese non solo preventivava la morte dei suoi cittadini (con assoluta mancanza di tatto), ma metteva in chiaro le misure che il paese avrebbe preso difronte all’emergenza Coronavirus, misure che non seguivano le orme di Cina e Italia, ma si muovevano verso un approccio più “soft” e per così dire più “economico”.
“Perché questo ora non è solo un tentativo di contenimento della malattia per quanto sia possibile, ma di ritardare la sua diffusione in modo tale da minimizzare il disagio. Se rimandiamo il picco, anche solo di qualche settimana, allora il nostro NHS (servizio di sanità nazionale) sarà più forte con il miglioramento delle temperature e un minor numero di persone che contraggono disturbi respiratori, un maggior numero di posti letto sarà disponibile, e ci sarà più tempo per fare ricerca medica”.
No al lockdown, no alla chiusura delle scuole, addirittura in dubbio l’utilità del fermare gli eventi pubblici perché non lo si ritiene rilevante nel tentativo di arginare il virus. Non sorprende che queste decisioni siano apparse paradossali, soprattutto se le si guarda dal nostro paese dove ogni attività economica non di prima necessità è stata sospesa, e la libertà di movimento dei singoli è fortemente limitata.
Stiamo esagerando noi o sono pazzi loro? Si tratta in realtà di due approcci molto diversi a un medesimo problema
Partendo dal presupposto che è un virus ancora “sconosciuto”, su cui non è facile fare previsioni nel lungo periodo, l’unico precedente è ovviamente quello cinese. Da quello che si sa, il tasso di gravità della malattia e quello di mortalità sono rimasti invariati nel tempo, mentre il tasso di guarigione ha subito un aumento continuo.
Un altro dato interessante, è la diminuzione del tasso di infezione nelle regioni colpite della Cina, che da due persone contagiate per infetto è sceso a poco più di uno. Sono dati ancora molto vaghi, che poco o nulla ci dicono su come comportarsi, ma alla resa dei conti sono gli unici che abbiamo. Dal punto di vista economico le misure prese, prima in Cina poi in Italia, e che si stanno pian piano spandendo in tutta Europa, gravano pesantemente sul sistema economico e non vanno considerate alla leggera.
Ma l’Inghilterra sceglie la strategia “dell’attesa”. Il pm chiede ad anziani e malati di chiudersi in casa e lavarsi le mani, ma alla fine dei conti “we keep calm and carry on”.
Certo ci si muove nella speranza di acquisire nuove informazioni, e prendere decisioni più ponderate, ma cosa si rischia?
Da una parte una propagazione del contagio a numeri enormi. Dall’altra parte economicamente parlando i rischi sarebbero minori, l’impatto verrebbe assorbito meglio nel breve periodo e non richiederebbe sforzi “per ricostruire” nel lungo. Il modello cinese invece impone un minor costo in termini umanitari ma mette sul giogo le tasche del paese.
Inoltre la fascia della popolazione maggiormente colpita è evidentemente quella più debole e “non produttiva”: anziani, malati gravi… ragionando in puri termini economici conviene a un paese investire enormi capitali per salvaguardare quella parte della popolazione più fragile, che realisticamente non sarà mai in grado di “ripagare” questi costi? No, non conviene affatto.
In sostanza la strategia di Johnson è questa: non si contrasta in alcun modo il contagio, se non con delle basilari indicazioni di prevenzione. Scuole, università, negozi, centri commerciali, ristoranti … tutto funziona come prima, senza particolari restrizioni. I malati vengono curati, malgrado l’impossibilità di contenere l’intera emergenza sanitaria con le sole risorse a disposizione. In molti moriranno. Ma in generale l’economia non ne risentirà come in Italia o Cina.
Non è un calcolo che contempla l’etica o la morale, questo è chiaro. Ciò che si vuole preservare è l’economia del paese, non il singolo cittadino, e da un punto di vista politico-economico potrebbe anche avere perfettamente senso. Se il paese si rende conto che non vi è speranza che il suo servizio nazionale possa far fronte alla crisi, ma che volenti o nolenti gli ospedali si ritroveranno sommersi da numeri di gran lunga superiori a quelli che realmente possono accogliere. Se considerato il danno economico, che la chiusura di tutte le attività private se non rare eccezioni, e in generale l’immobilismo del paese.
Sono fattori enormi, che non possono essere stimati preventivamente ma che fanno tremare le poltrone del potere di tutto il mondo. Rimanendo in quella logica economica, l’Inghilterra si muove verso una conclusione cinica che va in direzione opposta di altri stati. Sacrificare una fetta della popolazione. Il virus dilagherà incontrastato, arrivando a contagiare percentuali altissime di cittadini e il numero di morti si muoverà di conseguenza.
Come abbiamo già accennato si tratta inoltre di una maggioranza di cittadini “improduttivi” che non contribuiscono attivamente al pil del paese, ma che “pesano” sulle spalle della popolazione attiva. Banalmente una diretta conseguenza è la diminuzione delle spese del sistema pensionistico nazionale. Ci rendiamo conto dell’indescrivibile cinismo di tutto questo, ma nascondere le dure verità non serve a nessuno e anche quando è scomodo e fastidioso, l’unico modo per risolvere un dilemma è parlarne.
Per quanto ci disturbi pensare che le generazioni “giovani”, l’Italia del domani (ma direi il mondo del domani), pagheranno i costi che questa crisi sanitaria ha causato è innegabile, come è innegabile che questi costi erano volti a salvaguardare la fascia più vecchia della popolazione (età media dei decessi è 79,4 anni).
Considerato tutto questo, perché allora è stato fatto un passo indietro? Perché l’Inghilterra non segue più il sentiero “dell’immunità di gregge”, ma prende posizioni sempre più vicine agli altri paesi europei?
Il 16 Marzo Boris Johnson annuncia una retromarcia (dopo giorni di asprissime polemiche), e sottolinea che è arrivato il momento di adottare misure draconiane. Oltre alle raccomandazioni ai target più fragili, e l’invito a limitare le attività di ritrovo nel maggior numero possibile; Londra (il cuore del focolai inglese) vedrà l’attuazione di misure speciali. Scuole, musei, cinema e teatri chiudono i battenti.
Malgrado nulla abbia a che vedere con la morsa di ferro che stringe paesi come Francia, Italia o Spagna, è già un leggero spostamento dalla linea dell’inazione inizialmente proposta.
RetromarciaBoris Johnson: perché questo cambio di rotta così presto? Cosa non stava funzionando?
Sarebbe stato uno studio, pubblicato dai ricercatori dell’imperial College dal titolo “Impact of non-pharmaceutical interventions (NPIs) to reduce COVID- 19 mortality and healthcare demand”. Il team coordinato dal professor Neil Ferguson ha dimostrato i rischi di un approccio troppo “soft” nei confronti del Coronavirus, preannunciando in una situazione di assenza di manovre contro l’epidemia fino a 510 mila morti in tutto il Regno Unito (e oltre i 2 milioni negli USA).
Difronte a questo scenario apocalittico i due paesi hanno fatto velocemente marcia indietro, muovendosi verso posizioni sempre più vicine a quelle di Italia e Cina. Ma perché la strategia dell’immunità di gregge non poteva funzionare? Perché l’Inghilterra ha ricevuto una risposta così negativa al suo primo approccio al problema Covid-19?
Innanzitutto è necessario chiarire la questione dell’immunità di gregge di cui tanto si è parlato, e specificare che in questo caso non possiamo parlare affatto di tale fenomeno. Che cos’è l’immunità di gregge? Con l’espressione immunità di gregge, o immunità di gruppo, si intende quel fenomeno per cui, una volta raggiunto un livello di copertura vaccinale (per una determinata infezione) considerato sufficiente all’interno della popolazione, si possono considerare al sicuro anche le persone non vaccinate.
Il motivo è chiaro. Essere circondati da individui vaccinati e dunque non in grado di trasmettere la malattia è determinante per arrestare la diffusione di una malattia infettiva. Banalmente un virus ha bisogno di un altro organismo per sopravvivere, vivere e riprodursi (un po’ alla Alien), quindi tutti coloro che vengono infettati diventano autisti inconsapevoli del virus, che si fa scarrozzare in giro in cerca di nuovi contagi.
L’obiettivo dell’immunità di gregge è creare un ambiente non favorevole alla proliferazione del virus, così che non potendo più spostarsi da una persona all’altra questo muoia. Come si può ottenere questo? Con la vaccinazione naturalmente: quando la maggior parte della popolazione è immunizzata, il virus non trova più spazio di manovra e viene estirpato. Nel nostro caso però è chiaro che parlare di immunità di gregge non ha affatto senso, primo perché non esiste il vaccino quindi l’unica arma effettivamente comprovata è l’isolamento, secondo perché non siamo certi che l’aver contratto il virus immunizzi (in Giappone una donna è risultata positiva due volte).
Altro punto fondamentale è la decisione di non limitare le attività ricreative, o di non chiudere le scuole, chiedendo soltanto alla popolazione anziana e malata di fare auto isolamento. Abbiamo visto che il Covid-19 può risultare fatale soprattutto in età avanzata, ma questo non vuol certo dire che giovani o giovani adulti non possano essere infettati e a loro volta diffondere l’epidemia, che si tratti di casi asintomatici o meno ha poco importanza, la popolazione più giovane è quella che si sposta e socializza di più, e a maggiori chance di contrarre il virus. Quindi isolare gli anziani ha poco senso, a meno che non li si chiuda in un bunker da qualche parte, il virus gira benissimo anche senza di loro.
Inoltre un problema da considerare è quello del “precedente”. Se in questo momento uno stato decide di superare, anche se in tempo di crisi, la linea del “consentito”, prendendo delle misure dalla dubbia morale, questo crea un pericoloso esempio per il futuro. Il primo passo è sempre il più ostico. Lo stesso potrebbe essere detto per l’Italia: una serie di decisioni e direttive così invasive nella vita dei privati sia stata attuata deve far pensare, e considerare l’importanza di non cadere nell’abitudine. Questa non è la norma, e non può diventarlo.
Infine c’è la questione della percezione dei cittadini di uno stato che decide di sacrificare una parte della popolazione per non fermare la macchina economica. Fra i singoli e lo stato c’è un patto implicito (ed esplicito) di protezione e salvaguardia, che va oltre la questione morale, e affonda le sue radici in un rapporto di fiducia reciproco: io rispetto le tue decisioni, tu ti prendi cura di me. Nei momenti di crisi questa alleanza emerge e forza le parti a prendere posizioni.
Uno stato, per garantire la sopravvivenza del suo senso di unità e coesione, non può mettere al secondo piano (pubblicamente) la vita dei suoi membri per il benessere finanziario. Non illudiamoci, lo fa costantemente, ma dietro le quinte, senza sventolarlo sotto il naso della popolazione che, conscia o meno, accetta il primato “della ragion di stato” rispetto ai suoi interessi. Ma non nel pieno di un’epidemia.
Non quando la finestra mondiale racconta di paesi che si fermano per proteggere i più deboli, quella parte della popolazione che non “conviene” proteggere, ma che non per questo è meno “cittadina” degli altri. In uno scenario simile non può sussistere il dubbio del “cosa convenga fare”, perché non si può negare a dei membri della comunità la protezione e la cura che verrebbero estesi ad altri (immaginiamo se il virus colpisse i bambini).
In questi giorni molti paesi hanno scelto la via “umanitaria”, a dispetto di quella “economica”, ed è questo forse il lampo di speranza più eclatante che deve emergere da questa vicenda. La volontà di mettere la vita umana davanti a tutto. Quell’empatia che dimentichiamo così facilmente nella routine quotidiana di tutti i giorni, nello stato di indifferenza che ci provoca la pioggia di notizie, deve essere la vincitrice alla fine di questa epidemia. Possiamo salvare tutte le economie di questo mondo, mantenere il bilancio in positivo, proteggere il pil del paese, ma se manca il senso di comunità, sarà stato assolutamente inutile.