Cosa vuol dire per una donna essere detenuta? Cosa si prova a vivere a distanza il proprio ruolo di madre, moglie, sorella, figlia? Sono sentimenti, sensazioni, disagi e speranze, accompagnate dall’abile penna di Isabella Misurelli. Scrittrice di Bari, per due mesi è entrata a contatto con le detenute del carcere femminile di Trani (BA). Dal suo corso di scrittura con loro è nato un libro, “Parole Fuori” (edizioni fogliodivia, collana VociLibere), che racchiude la storia di 5 donne.
“Non fare come me, fai meglio di me” è il sottotitolo, “perché tra queste pagine, queste donne, oltre a gridare il dolore di vite zoppe, implicitamente consigliano strade da seguire e strade da evitare”.
“L’inizio del rapporto con queste donne è stato accidentato – si legge nel libro – Non è facile rivelare a qualcuno che non si conosce ciò che si custodisce nei solchi dell’anima. Poi arriva la fiducia e si spalancano le porte dell’io: una madre che ti abbandona quando sei piccolissima, una famiglia che si sviluppa intorno al codice della violenza, la paura di essere perse per sempre perché non si ha più nulla all’esterno, il rapporto distruttivo con la propria madre, la tossicodipendenza, l’uccisione del primo amore davanti ai tuoi occhi, la morte di tuo marito mentre sei in carcere e la burocrazia non riesce a capire l’importanza di un minuto”.
Un libro dedicato alle donne (che potrebbero riconoscersi in molte pagine), agli uomini (per capire meglio e più a fondo le donne) e ai giovani (per imparare a schivare alcuni errori). Un libro per riflettere, come dimostra la nostra intervista alla scrittrice.
Ho letto dalla tua biografia che, per te, tutti hanno una storia da raccontare. Da qui l’idea di “Parole Fuori”?
«Mi sono sempre occupata di scrittura, ho fatto teatro nelle scuole elementari e superiori. Poi, questa passione è continuata fino ad arrivare allo storytelling per le aziende. Da qui il mio slogan, “ognuno ha una storia da raccontare”, nato dal mio impegno con le imprese.
Al carcere di Trani, invece, ho realizzato un corso di scrittura. Abbiamo proposto al Garante per i detenuti della regione Puglia di andare in carcere per scrivere delle favole. Pensavamo che per le detenute fosse più semplice scrivere racconti fantasiosi. Invece, ci siamo dovuti ricredere. Le detenute desideravano proprio scrivere delle storie che parlassero della loro vita. Così, nel libro “Parole Fuori” abbiamo raccolto i loro racconti.
Inoltre, nel libro abbiamo aggiunto delle favole iniziate dalle detenute e concluse da me, visto che il tempo del corso era finito. Mi sono basata sui loro sentimenti e sui loro caratteri; è come se le avessero terminate loro».
Cosa ti hanno insegnato queste donne? Cosa hai imparato da loro?
«Sono molteplici le cose che ho imparato da loro. Il primo giorno in cui sono entrata in carcere non avevo pregiudizi ma dei “giudizi”: pensavo alle detenute come… le detenute. Come pensiamo agli “stranieri”, ai “senzatetto”, etc. Insomma, come a una categoria. Poi, entrando in carcere, ti accorgi come quella categoria non è altro che un insieme di singoli esseri umani con delle proprie storie, con una famiglia e con dei figli.
Quindi, prima di tutto, ho imparato a non pensare per categorie ma a capire che, dietro ai “gruppi” di persone in difficoltà, ci sono sempre delle persone. Ci sono madri, sorelle, figlie…».
Qual è stata l’esperienza o la storia che ti ha colpito di più?
«Non c’è una storia in particolare perché, per me, ognuna di loro ha sviluppato un tema di valore e ognuna di loro è stata importantissima. Abbiamo parlato di religione, del padre violento, del rapporto difficile con la madre, di tossicodipendenza.
La storia più forte è quella che fa da filo conduttore in tutto il libro: è quella di A., parla dell’abbandono da parte di sua madre durante l’infanzia, della perdita del marito e della sua tossicodipendenza conclusasi in carcere. Una storia difficile e continuata anche dopo la sua uscita dal carcere.
Queste persone, con pene brevi, hanno un problema in particolare: uscire dal carcere senza una famiglia, un lavoro e una casa, significa uscire e trovarsi nel baratro senza sapere dove iniziare a riprendere in mano la propria vita».
Quali sono le maggiori difficoltà delle donne in carcere e quali le condizioni dietro le sbarre che potrebbero essere migliorate?
«Premetto che il carcere di Trani non è un carcere di massima sicurezza, le detenute sono libere per tutta la giornata, fino alle 20. È un ex convento, senza fili spinati o muri alti. Quindi non parlerei di costrizione fisica, piuttosto di costrizione interiore. Loro non sanno come fare uscire fuori questa rabbia, questo dissenso che sentono dentro. Quindi corsi come quello di scrittura aiutano tantissimo: permettono di tirare fuori questi sentimenti.
Un altro problema è quello della vita dopo il carcere, come accennavo: una volta uscite non hanno un aiuto esterno e non sanno a chi rivolgersi. Quando escono dal carcere andrebbero seguite, almeno i primi momenti.
Inoltre, sarebbe necessario accostare ad ognuna di loro uno psicologo. C’è ma non esiste l’obbligo di seguire un percorso di terapia. Sarebbe meglio secondo me: non sono persone con patologie gravi ma è presente un disagio caratteriale e sociale che andrebbe sanato».
Proprio nel tuo libro si legge:
“Quando qualcuno per un motivo o un altro non ha i mezzi, lo spessore per
combattere il male o il desiderio di farlo è esso stesso il male? O c’è un
disagio sociale, caratteriale, mentale da sanare.
Non si tratta di giustificare
chi delinque, ma di capire cosa succede prima di delinquere. Costruire altre
carceri non servirà se non si capisce cosa non ha funzionato”.
«Esatto. Tendiamo a credere che il male sia al di fuori di noi, lontano dalla società civile. Invece, penso che ogni essere umano abbia dentro di sé il male e il bene. C’è chi ha dei mezzi per contrastare il male, per non cadere in certi disagi. E chi no, e quindi rischia di imbattersi in una vita negativa che può portare al carcere.
L’importante, forse, è quindi capire quali sono i disagi sociali e caratteriali che portano queste persone a delinquere. Andrebbe fatto un passo indietro cercando di comprendere questi aspetti. Se in ogni quartiere ci fosse un centro dove le persone possono chiedere aiuto, la situazione sarebbe differente. Spesso sono donne sole, senza lavoro, e non ci si deve stupire se vengono commessi reati».
Una canzone che associ a questa esperienza?
«Direi “Wake Up Alone” di Amy Winehouse. In questa canzone denuncia un certo malessere di vivere e una fragilità interiore che accomuna la cantante stessa alle detenute che hanno partecipato alla stesura del libro».