Samuel Spano è tra i fumettisti italiani più noti del momento. La sua carriera, iniziata come illustratore e colorista per lo studio d’animazione italiano Rainbow, ha preso il volo con Nine Stones. L’opera, nata nel 2016 come webcomic su Facebook, è approdata alla pubblicazione cartacea con Editoriale Cosmo l’anno successivo.
Ma la sua arte – definita dai giornali di settore un insieme tra pop, queer e ultra-violenza – non è il suo unico dono. Ora c’è anche l’essere testimonianza attiva del mondo trans. Samuel è nato a Sassari nel 1983 come Sara. Dopo un lungo percorso tra la scoperta della comunità LGBTI, la consapevolezza di sé e il contesto religioso-conservatore, Samuel ha iniziato a brillare.
E ora che i problemi «schiacciano un nucleo di roccia», cammina a testa alta pieno di spirito critico e ironia a fianco del suo compagno e del suo bimbo, avuto prima di iniziare la transizione (FtM, da donna a uomo).
In questa intervista ci racconta il suo ricco percorso di vita regalando a tutti noi la possibilità di riflettere e avvicinarci ad un mondo per molti ancora tabù…
Chi è Samuel Spano? Presentati…
«Sono un ragazzo di 36 anni che ha iniziato la transizione da un anno e mezzo. Sono un genitore di un bambino di 4 anni e convivo con suo padre. Faccio il fumettista, è il mio mestiere principale. Sono illustratore, colorista e lavoro anche nell’ambito dell’editoria internazionale».
Raccontami della tua infanzia
«Sono nato nel 1983, a Sassari in Sardegna, da una famiglia di 5 persone. Ho altre due sorelle più grandi di me. È una famiglia molto religiosa, sono tutti cattolici. Sono cresciuto in un contesto in cui non si parlava di sesso, figuriamoci di questioni così controverse come l’omosessualità o la transessualità (ride ndr.). Se è tabù parlare di sesso in generale, anche quello “eteronormativo”, figuriamoci il resto. Non se ne parlava proprio.
Quindi, in questo clima di generale reticenza, non ho mai avuto modo neanche di indagare su di me, almeno nella primissima infanzia e pre-adolescenza. Mi identificavo in un maschio in modo naturale, senza farmi domande sulle differenze che c’erano tra gli individui. Per me era naturale. Ma per quanto riguarda le persone che come me avevano la disforia di genere, non ho avuto mai nella mia testa un chiaro quadro completo della situazione perché non avevo nessun esempio simile a me.
Nonostante il contesto religioso, ho comunque avuto parecchie libertà, sono sempre stato libero di giocare con chi volevo e frequentare chi volevo, potevo giocare tranquillamente coi maschi, con cui mi identificavo più facilmente. Non so quanto questo sia uno stereotipo del genere maschile o femminile ma, in generale, non mi interessavano i giochi delle ragazzine. Non intendo il giocattolo in sé, giocavo con tutto ma mi sentivo più allineato a delle attività che la cultura attribuisce ai maschi. Ma questo credo sia indipendente dal genere sentito, credo che molte femmine possano sentire lo stesso anche senza identificarsi con i maschi. Ma per me era diverso.
Tra l’altro in famiglia mi chiamavano anche “maschiaccio” (riferendosi ai miei atteggiamenti) ma, non avendo ancora sviluppato i tratti sessuali secondari, non mi disturbava niente del mio corpo. I maschi mi accettavano spontaneamente tra loro, dicevano cose (stupide ovviamente) “non giochiamo con le femmine ma Sara è Sara” come se fossi comunque qualcosa di diverso da “femmina”.
Questo mi metteva a mio agio e mi faceva sentire bene. Ecco, anche oggi mi sento così: mi identifico nel genere maschile però, prima di tutto, io sono io, una creatura unica. Sono un maschio ma sono io. Quando mi dicevano “Sara è un’altra cosa”, stavo bene».
Quando hai iniziato a percepire distanza dal tuo corpo?
«Ho iniziato a capire tutto quando il corpo ha iniziato a svilupparsi secondo il mio “schema cromosomico”, ovvero femminile. Molte ragazze raccontano di aver comunque provato disagio nella fase di sviluppo, le insicurezze, il sentirsi così al centro dell’attenzione e cose del genere. Per quanto riguarda il seno, quando si è iniziato a sviluppare ho percepito il primo disagio. Anche questo, però, si è mascherato e confuso con il disagio delle ragazzine della mia stessa età. Vedevo che si vergognavano del seno che stava nascendo quindi pensavo che vivessero lo stesso mio disagio. Pochissimi bambini erano contenti del loro sviluppo. Insomma, non percepivo le mie vere sensazioni, non capivo che mi sentivo sbagliato. Per me era diverso dalle altre ragazze, mi sentivo sempre più distanziato dal mio corpo.
A circa 12 anni mi è venuto il ciclo mestruale, è durato un anno ed è stato irregolare. Poi è sparito ed è tornato dopo un sacco di mesi. Non avevo detto niente a nessuno di questa disfunzione, in quel periodo, quando mi è sparito il ciclo, stavo benissimo. Dopo circa sette mesi mia madre si è accorta della cosa e a quel punto mi ha portato dal ginecologo. Mi diagnosticarono la sindrome dell’ovaio policistico, questa mi ha portato un livello di androgeni più alto. L’eccesso di estrogeno, in questa patologia, converte in androgeni l’estrogeno in eccesso. Quindi, a quel punto, ho iniziato a sviluppare tratti più maschili. Avevo più peli di una qualsiasi ragazza, non li facevo e alcuni miei amici mi dicevano che ero bellissima lo stesso. Mi stava spuntando anche il pomo d’Adamo, così ho iniziato ad avere delle caratteristiche che tutto sommato mi piacevano.
Dopo la visita e il dosaggio ormonale, mi diedero la terapia, la pillola. La cosa è bizzarra perché a pensarci bene è come se avessi cominciato la stessa procedura che hanno le mtf, la femminilizzazione. Solo in questo modo riuscivo ad avere delle mestruazioni regolari ma dovevo continuare a prendere gli ormoni, altrimenti il ciclo si bloccava di nuovo ed ero costretto a punture di progesterone per farlo ripartire.
Così, fino a 20 anni, è come se avessi vissuto una sorta di “transizione al contrario” rispetto al genere che non sentivo, anche se effettivamente ci ero nato: quello femminile. Nel mio intimo la percepivo un po’ come una violenza verso di me, ma non sapevo nemmeno dirmi il perché, doveva essere una terapia assolutamente necessaria. E ovviamente lo è per chi non sente una incongruenza di genere, senza dubbio. Ma per me era diverso e non sapevo comunque spiegare il disagio. D’altra parte, quando ho iniziato a sviluppare questi tratti secondari somatici maschili, ero tranquillo. In fondo era quello che sentivo di essere. Nonostante fosse chiaro per me che non ero una ragazza, allo stesso tempo pensavo che la mia fosse solo una fantasia irrealizzabile, oltre a vergognarmi di parlarne, quindi mi sono sempre sforzato di comportarmi come una ragazza e rientrare nei canoni culturali prestabiliti per le femmine.
Tra l’altro, quando ho iniziato a provare attrazione verso altre persone, queste erano di sesso maschile. Questo mi ha portato ancora più lontano dallo scoprire me stesso o dall’intuire la mia transessualità. In effetti, gli unici esempi di ragazze maschili che conoscevo, alla fine si sono rivelate lesbiche. Loro, ovviamente, avevano attrazione verso le ragazze. Io, invece, provavo attrazione verso i ragazzi. Chiaramente, a quel tempo, non si parlava in nessun modo dell’omosessualità però vedevo la differenza tra me e quelle ragazze.
Quando ho scoperto che esistevano altri orientamenti sessuali, è stato un casino. In quel momento è iniziata la mia confusione. Non c’erano assolutamente informazioni sui transgender. Ho iniziato ad avere queste informazioni frammentarie quando ero già alle superiori. Mi sono iscritto all’istituto d’arte, essendo un ambiente artistico era molto più aperto e così ho iniziato a conoscere un sacco di ragazze lesbiche e di ragazzi omosessuali che erano fidanzati.
In quell’ambiente non c’era una chiusura e tutti erano liberi di esprimersi. Così, ho iniziato a farmi delle domande: soffrivo vedendomi al femminile ma, allo stesso tempo, provavo attrazione per i ragazzi, quindi conscio del fatto che solo mettendomi più “carina” e truccandomi, potevo avere più chance sentimentali, mi sono messo una maschera. Ma dentro di me sentivo comunque un profondo disagio che non riuscivo a tradurre, o che comunque cercavo di scacciare violentemente dai pensieri.
Alle superiori, una professoressa molto aperta ci ha fatto molti discorsi sull’intimità e sulla comunità Lgbt. È stata molto all’avanguardia e ci ha fatto vedere il film in cui per la prima volta ho visto l’esempio di un transgender maschio: Boys Don’t Cry. Quella però è stata davvero la “pietra tombale” per me: guardando quel film, mi sentivo morire, volevo andarmene e piangere, perché la fine di quella storia è estremamente tragica, e dato che raccontava comunque di un ragazzo nato ragazza, alla quale però piacevano le donne, mi sono detto che non poteva c’entrare nulla con me, dato che a me piacevano soprattutto i ragazzi.
Così da lì in avanti ho deciso che mi dovevo dimenticare questo disagio. Come se fosse stato in mio potere farlo. Ho sepolto tutte le sensazioni dentro di me. La distanza col corpo aumentava. Nel frattempo, le epoche si sono evolute e i discorsi anche. Però, nella mia testa, non esisteva la transizione. Nella mia testa accettavo solo le ragazze lesbiche che volevano stare con delle ragazze. Al massimo pensavo alla possibilità di un ragazzo trans ma eterosessuale, a cui piacciono le donne, ma escludevo qualsiasi altra variabile. Anche perché non si parlava della differenza tra orientamento sessuale e genere sessuale quindi oltre il rifiuto, non avevo nessun elemento di confronto con la realtà.
Da solo ogni tanto mi capitava di guardarmi allo specchio, schiacciarmi il seno e tirarmi su i capelli ma era un aspetto vergognoso di me e inqualificabile, che non dicevo a nessuno per estrema vergogna e senso di colpa. Poi però questa repressione mi ha portato a soffrire di bulimia anoressica, dai 16 anni fino ai 22, nel tentativo disperato di togliermi le forme dimagrendo. Odiavo le curve femminili, nonostante i ragazzi che potevo frequentare in generale mi apprezzassero molto fisicamente. Io invece mi volevo vedere più “spigoloso”, come alcuni miei amici maschi.
Quando mi facevano i complimenti sul piano femminile, mi distruggevano. Cercavo di mantenere un’apparenza di persona “sana” perché non volevo essere anoressica, volevo essere magra perché non volevo le mie forme femminili ma, allo stesso tempo, non volevo che le persone sapessero che avevo questo disagio, quindi mangiavo davanti a tutti. Non era la bulimia nervosa, quella che ti fa abbuffare e poi vomitare. Ma finalizzata al dimagrimento, vomitare era dovuto dal fatto che dovevo farmi comunque vedere in famiglia mangiare regolarmente per non destare sospetti, e quindi andare a vomitare dopo i pasti. Quando potevo infatti, non mangiavo, quindi il cibo era solo una questione sociale, ma dimagrire non rappresentava aderire a un canone estetico da “modella anoressica”, bensì da uomo. Ovviamente tutto questo era dettato da un disagio profondo, e i danni di questo comportamento sono stati devastanti a livello gastro-intestinale.
A volte, per testare la relazione che avevo, ad alcuni ragazzi con cui nel tempo avevo relazioni stabili, chiedevo una cosa particolare: come avessero reagito se io gli avessi rivelato che in passato ero un maschio e che ora ero una femmina. Ovviamente il contrario di quello che avrei voluto fare, ma era per capire il grado di accettazione della cosa, usando una sorta di ipotesi plausibile, visto che fisicamente ero una donna. Tutti reagivano male, mi dicevano che non l’avrebbero mai accettato, che sarebbe stato scorretto non essermi presentato prima in questo modo, che non volevano stare con un “uomo” ecc… ecc…
Quindi ho smesso di chiederlo. Per me era un’altra pietra tombale dietro l’altra, che mi portava sempre di più nel silenzio assoluto in merito alla mia vera natura. Quindi non avrei mai detto a nessun fidanzato questo “segreto”, la mia identità di genere maschile. Intanto ero ancora in confusione, non capivo perché volevo sentirmi un ragazzo se comunque mi piacevano i ragazzi. Nella mia testa non c’era nessun motivo per cui avrei dovuto fare la transizione.
Però, ho fatto dei percorsi psicologici. Prima di tutto per la bulimia: a 19 anni ho capito che stavo iniziando ad avere dei disturbi forti, iniziavo a sanguinare dalla gola, avevo le ulcere allo stomaco e una flogosi cronica. Quindi ho iniziato a soffrire di fortissimi crampi allo stomaco e ho fatto tutti gli esami del caso. La terapia psicologica era tutta incentrati su eventuali traumi ma soprattutto sull’accettazione della mia femminilità, e qui il disagio aumentava. Si capiva che c’era qualcosa sotto ma nessun terapeuta, in quel momento, andava a identificare il bersaglio, sia perché è difficile trovare qualcuno esperto in disforia di genere, sia perché cercavo di depistare il discorso. D’altronde, lo psicologo non è un chiromante e non può azzardarsi a metterti delle idee in testa, col rischio di condizionarti.
Insomma, notavo che la terapia andava bene per cercare dei modi di evitare di andare a vomitare e in qualche modo funzionava lo stesso. Capivo che il problema non era la mia insicurezza. Il problema era il mio genere incongruente ma lo rifiutavo. Nel frattempo, però, ho migliorato l’alimentazione e mi sono messo a fare sport. Diciamo che piano piano iniziavo a prendere consapevolezza di avere un’identità maschile ma mi rendevo conto che non era possibile affrontare la questione.
Avevo un padre molto bigotto, molto repressivo su tanti fronti e che stava male fisicamente. Appunto perché era molto malato, non volevo aggiungergli altre preoccupazioni. Non me la sentivo di farlo soffrire perché sapevo che avrebbe provato dolore per questa notizia. Poi, ho conosciuto il futuro padre di mio figlio e, nel frattempo, mio padre stava peggiorando. Ho portato avanti la mia vita e lavoravo in una grossa azienda di animazione 3D per i cartoni animati. Ero indipendente, vivevo a Roma e non avevo motivo per non effettuare la transizione. Avevo anche un sacco di amici gay e mi piaceva l’ambiente, soffrivo molto nel vedere i ragazzi gay perché mi identificavo in loro. Avevo amici gay che invidiavo tantissimo. Capivo che era quella la vita che avrei voluto.
Mio padre è morto nel 2013. Il suo carattere è cambiato gli ultimi mesi di vita: da ossessionato alla religione, in maniera quasi morbosa, è passato a non parlare più di religione, di Gesù, di nulla inerente alla fede. Ha iniziato ad ascoltarsi la musica di quando era ragazzo e mi parlava della sua gioventù. Mi ha fatto conoscere i suoi cantanti preferiti e ha scoperto “YouTube”. Si è aperto con me, e solo con me, riguardo questioni private. Ha iniziato a parlarmi dei suoi primi amori e di questioni di alcune cose di cui si è pentito nella vita, cose stupide e cose importanti. Mi ha quindi detto di aver capito di non aver fatto cose, di averne perse e che ormai non poteva più farle. Che questo era un bel rimpianto.
Mi ha detto di non fare mai questo errore, non arrivare a questo punto, al termine della propria esistenza dicendosi “l’avrei potuto fare e non l’ho fatto”. Mio padre senza saperlo, mi ha aiutato a uscire fuori. Non subito, ovviamente, ma è da lì che dentro di me è scattato qualcosa. Questa frase mi si è tatuata nel cervello, in quel momento mi sono sentito dire ciò che alla fine mi serviva per vedere la realtà dei fatti, ero un ragazzo e non mi sarei mai perdonato di morire da “Sara”, sulla mia lapide ci doveva essere scritto “Samuel”.
Quando è morto mio padre si è aperto un vaso di Pandora che ancora non avevo espresso a nessuno. Non l’avevo detto neppure al mio compagno, avevo una paura tremenda del mondo ma ormai era partito tutto. La mia transizione non è nata nella mia prima seduta psicologica ma quando mio padre mi ha detto quella frase nel 2013. Mio padre ha iniziato la transizione dentro di me, covavo tutto e non lo dicevo ancora a nessuno, cercavo di non pensarci ma ormai era andata ed era inarrestabile, era una questione di tempo. Ma nonostante questo, continuavo a sperare che quello che sentivo fosse tutto solo una fantasia. C’erano comunque delle resistenze.
Nel 2014 sono rimasto incinta. Eravamo molto contenti, dentro di me si è palesata l’idea che la maternità, tra l’altro, mi avrebbe finalmente tolto questa strana idea di essere uomo, credevo che vedendomi madre questa storia sarebbe finita anche solo perché non sarebbe stato nemmeno più possibile, visto lo stigma sociale che c’è verso i genitori trans. Oltre la gioia comunque di diventare genitore, c’era la speranza che questo avrebbe messo la parola “fine” a questa storia. Credo che chiunque, utero munito, abbia le stesse paure. La cosa incoraggiante è che stavo vivendo la gravidanza tutto sommato a mio agio. Insomma, nel mio caso, non vedevo la gravidanza come un attacco alla mia mascolinità. Quindi questo mi ha fatto cadere nell’errata interpretazione che questa cosa dell’essere maschio fosse una roba che chissà quali strani motivi aveva…
Nel frattempo, continuavo il mio percorso psicologico per altre questioni. Avevo un sacco di discorsi laterali sui quali lavorare, erano tutti i disturbi che la disforia di genere provocava. Alla radice, però, c’era la disforia di genere. Insomma: andavo a lavorare solo ai rami mentre non mi occupavo delle radici. È come se avessi manipolato i miei terapeuti per non far emergere l’argomento. Mi inventavo anche “cavolate” per questo. Così, ho cambiato diversi terapeuti, mi hanno aiutato tanto ma non si arrivava mai al nocciolo. Quando capivo che la terapia giungeva a un punto clou, mollavo il terapeuta e lo cambiavo. Sapevo che più andava avanti e più possibilità avevo che la maschera da donna cadesse.
Durante la gravidanza, il bombardamento ormonale che avevo mi permetteva un altro stato d’animo, gli ormoni avevano un effetto sulla mia psiche, come in quella di tutte le persone, quindi non sentivo particolari pressioni dalla mia identità maschile, probabilmente aiutato anche da questo “rincoglionimento” ormonale, vai a capire… In qualche modo, in quel momento sembrava che la disforia fosse più lontana. Una sorta di scherzo a cui avevo creduto per anni, ma che non era vero nulla. Dovevo solo essere una mamma come tante. Punto.
Ho quindi allattato il mio bambino anche se non avevo un gran rapporto con il mio seno: ma “usando” il mio seno è come se finalmente avesse avuto uno scopo, trovavo uno scopo a quella mia parte del corpo, serviva finalmente a qualcosa, e che non era solo una roba appesa così per ricordarmi che ero nato col corpo sbagliato, era il mezzo per allattare mio bambino, per farlo crescere.
Quindi era una sensazione straordinaria riuscire a dargli quello che gli serviva. L’ho allattato per ben otto mesi, poi ha avuto lo svezzamento. È stata una gravidanza molto naturale ma, quando ho smesso di allattarlo, è successo qualcosa. La prolattina ha iniziato a diminuire ed è iniziato il testosterone a tornare. In quel momento è come se avessi ricevuto il colpo di grazia: sentivo il testosterone che stava tornando ed è stato traumatico, ho iniziato a stare malissimo. Piangevo ed è stato un periodo davvero brutto.
Il mio compagno continuava a chiedermi cosa avevo e si pensava alla depressione post partum. Però, sentivo che non era quello, non ero depresso. In cuor mio, sapevo che cosa fosse, la mia parte maschile che urlava, che metaforicamente mi chiedeva “ora che hai assolto questo compito fisico, da femmina, tirami fuori da qui, ti prego!”. Stavo tremendamente peggio di qualsiasi altro periodo in cui sentivo la disforia di genere più prepotente, ma non volevo assolutamente parlarne con il mio compagno.
Poi non ce l’ho fatta più e ho cominciato a essere più maschile, ho trovato il coraggio di andare a tagliarmi i capelli, li ho sempre tenuti lunghi, e lì c’è stata una vera svolta, un momento fortissimo e significativo per me. Vedevo molto nei capelli la mia maschera femminile: quel taglio era un modo disperato per dire che non ce la facevo più. Certo, non vuol dire niente avere i capelli lunghi o corti ma per me, in quel momento, era un simbolo. In quel momento mi sono detto: “Ok, ci sono, sono io”.
Così, con le lacrime agli occhi, ho preso da parte il mio compagno e gliel’ho detto. Gli ho detto quello che avevo sempre sentito: “Io non sono una ragazza”. Lui è stato fantastico, mi ha detto che si era preoccupato pensando che io avessi una malattia grave quindi si è rilassato di fronte a questa notizia. Certo, era una notizia forte ma non era grave come pensava. È stato terribile per lui vedermi stare così male e non sapere il perché.
Di fronte alla sua reazione serena ero scioccato. Quindi ho cominciato il percorso psicologico mirato per l’allineamento fisico di genere. Da quel momento ho capito moltissime cose riguardo questo, prima di tutto nel mio personale caso mi sono reso conto che principalmente il disagio più forte lo sentivo prima di tutto nei confronti della voce.
La mia era davvero molto femminile, ma non la percepivo così, semplicemente sentivo come se fosse una voce maschile non ancora sviluppata. Certo, non desideravo avere il “vocione”, non mi interessava. Era semplicemente che, in base a ciò che udivo, era come se non fossi mai arrivato alla fase adulta. Non pensavo di voler avere la voce da uomo, ma semplicemente “la mia voce”. Solo da adulto.
Quando ho iniziato ad avere i primi cambiamenti, ho iniziato a sentire meno disagio man mano che sentivo la voce cambiare. Le persone intorno a me hanno notato che stavo molto meglio ed ero molto più sicuro di me, molto più in sintonia e in pace. Così tutti hanno visto subito la conseguenza positiva della transizione ed è stato man mano più facile per molti accettarla».
Com’è stato dire a tua madre di essere transgender?
«Dirlo a mia madre è stato difficile, stiamo parlando di una persona cattolica ma soprattutto che non conosce nulla di questo genere di argomenti. Ho pensato che dovevo prepararmi e dovevo pensare a come dirglielo, così ho tergiversato un po’. Nel frattempo, però… Facebook mi ha fatto outing.
Spiego meglio: il mio profilo era blindato e non potevo più cambiare il mio nome. Ho fatto richiesta a una persona che sapevo avrebbe potuto aiutarmi… così è stato, ma il mio nome, nel mio profilo Facebook, è cambiato prima che io fossi avvisato. Risultato: tutti hanno visto il nome Samuel al posto di Sara senza che io sapessi che fosse già pubblico.
Mi ha scritto un mio contatto Facebook chiedendomi come mai non fossi più “Sara” ma “Samuel”. Così ho scoperto che il mio nome era già stato cambiato… Attacco di panico. Insomma, sono stato costretto a dirlo a persone che, giustamente si sono anche risentite rispetto a quanto accaduto. Mi hanno detto: “Ma devo saperlo da Facebook?”. Pensa che è successo ancora prima che iniziassi a prendere gli ormoni. Chi non era pronto, ha reagito male».
Tua mamma non aveva mai sospettato nulla?
«Mia mamma non conosceva la “transizione”. Non è che non sospettasse proprio niente, mi ha sempre visto come una “bambina atipica”. All’inizio c’è stato il panico, ho ricevuto telefonate un po’ da ovunque, e ho dovuto spiegare la questione. Ovviamente, tutti hanno iniziato a chiedere anche del mio bambino. Mi chiedevano cosa sarebbe successo, se me lo avessero portato via.
Mio figlio è stato anche uno degli argomenti con la psicoterapeuta. Avevo paura tanto per mio figlio, non tanto per me stesso. Dovevo fare la transizione ormai, era certo. La mia terapia iniziale con la psichiatra era più riguardo al fatto che stavo forse togliendo la madre a mio figlio. Ma la psichiatra mi ha fatto capire che non era così. Certo, ci saranno difficoltà da affrontare ma la mente dei bambini non funziona come noi crediamo, anche lui si farà delle domande, avrà i suoi momenti “no” ma si affronterà tutto per gradi. Di certo non gli stavo uccidendo la mamma e io sarò sempre la figura materna, questo non cambierà mai.
Di fatto, mia madre ha reagito male alla notizia ma per il nipote, per il resto diceva: “Sei felice? Fai quello che vuoi”. Alla fine per la mia serenità, ha accettato. Il mio stupore è stato notare le reazioni dei miei parenti molto diverse da come me le potevo immaginare, nonostante fossero dei cattolici sono stati i primi ad avermi detto: “Se sei felice così, io ti accetterò per quello che sei”. Questo mi ha commosso.
Viviamo anche in un grosso pregiudizio di fondo, alcune volte sensato, altre no, che se si hanno parenti religiosi si venga per forza condannati a non essere accettati. Non è sempre così. Dipende, nel mio caso si parla addirittura di una realtà molto piccola di paese, luogo di origine di tutti i miei parenti, e questi sono stati, superata la confusione iniziale, molto rispettosi e inclusivi.
Molto di più rispetto ad altre persone apparentemente progressiste che hanno avuto delle reazioni non proprio ottime: c’era chi mi diceva che forse dovevo solo accettare le mie forme femminili, o che dovevo semmai capire se fosse perché mi piacessero le donne, confondendo orientamento sessuale a identità di genere. Oppure che lo avrebbero accettato se dopo la transizione mi fossi trovavo una “compagna”. Follia.
Alcuni mi hanno addirittura consigliato testi femministi credendo che stessi in qualche modo rifiutando e denigrando la figura della donna, come se i motivi che mi spingessero a essere un uomo fossero legati a una strana forma di maschilismo. Alcune persone che pensano di avere un pensiero di base progressista, credono di poter dire qualsiasi cosa e potersi permettere di parlare in quanto tali. Invece tante volte sono meno preparate e fanno dei danni pazzeschi, alcune volte molto peggio di alcuni bigotti.
Questo discorso esiste anche all’interno dell’ambito trans. Ho trovato grandi ristrettezze mentali. Trovo un ambiente da una parte molto aperto, dall’altra molto chiuso. Mi fanno notare che ho un figlio, mi chiedono come ho fatto a fare la gravidanza se sono trans, mi dicono: “Io non ci penserei mai, io sono un vero trans, io non partorirei mai”. Invece, preciso: con la psicologa faccio un percorso per il mio rapporto genitoriale con mio figlio e con la società».
A che punto sei con la transizione?
«Ora ho iniziato ad avere problemi con l’utero. Il testosterone atrofizza le pareti uterine e la mancanza di estrogeni fa venire quello che hanno le donne in menopausa ovvero la secchezza all’interno della struttura uterina. Il ph cambia e si è più esposti ad infezioni. Inoltre inizio ad avere delle fitte interne ma la preoccupazione principale dell’endocrinologo e della psicologa è che sia il momento di fare l’isterectomia.
Non è obbligatoria, dipende dai soggetti ma nel mio caso probabilmente va fatta. Per questo, è urgente una relazione che consenta di avere l’autorizzazione a fare gli interventi. Ovviamente va affrontata correttamente la questione familiare e tutta una serie di questioni legate al bambino».
Non basta che la psichiatra e la psicologa affermino che sei una persona trans?
«No, ci sono tanti scogli anche qui. In certe nazioni questo è chiaro, molti rimangono incinta anche dopo la transizione. È comune. Invece, in Italia c’è una grande ignoranza, lo si vede anche nella comunità trans italiana stessa. Mi sono sentito dire tantissime volte che non era possibile che non avessi provato disagio per la gravidanza. Ma la verità è che la consapevolezza e il disagio percepito non solo le stesse per tutti.
Pensa che in Italia alcuni giudici potrebbero valutare soprattutto come ti vesti. Torniamo agli anni ‘50 praticamente. Se sei una mtf devi stare in gonna altrimenti non sei abbastanza femmina. Il mio caso è atipico perché ho un compagno. Quindi c’è anche la questione dell’essere due maschi che allevano un bambino. Insomma, si pongono dei problemi culturali, per questo sappiamo che dobbiamo trovare un compromesso.
Non dobbiamo mentire ma dobbiamo spiegare correttamente la questione. Immagino che un giudice potrebbe chiedermi come ho fatto, essendo uomo, a partorire. Io direi: “Beh, lo chieda a sua moglie come ha fatto”. Non conosco nessuno che dica quanto sia meraviglioso il parto. Anche se ho passato abbastanza bene tutta la gravidanza, sono stato terrorizzato dall’idea di partorire. Ma come lo sarebbe stato chiunque, donne incluse!
In ogni caso, non credo che esista una donna sulla terra che vive la gravidanza una uguale all’altra. Ci sono quelle che si vedono belle, che la vivono bene e anche quelle che direbbero “mai nella vita”. Per me, essere incinta non offendeva il mio essere una persona “maschile”. Questo offenderebbe tutte le donne che non vogliono figli! Io so quello che provo, so di essere maschio e non ho bisogno di qualcuno che me lo confermi. Ma l’iter prevede tutta una serie di convalide legate a degli stereotipi di genere che sono molte volte anche umilianti.
Bisogna quindi rendersi conto cosa significa il parto. Tanti uomini dicono che lo farebbero loro al posto della moglie per risparmiare questa sofferenza alla propria compagna. Ci sono anche uomini che vorrebbero la gravidanza e la invidiano e donne che la ripudiano. Io potrei anche dire di essere stato malissimo ma mi farebbe male come persona, non come persona trans ma proprio come persona. Dovrei andare contro anche al mio stesso concetto di femminismo. Insomma, non possono venirmi a dire che non sono uomo perché ho vissuto bene la gravidanza».
Ora che hai fatto coming out come ti senti?
«Adesso ho più problemi pratici ma mi sento più forte. Sto bene. Insomma, i problemi se stai bene li affronti bene. A volte mi schiacciano ma ora schiacciano un nucleo di roccia. Mi schiacciano ma non mi distruggono perché mi sento più forte, mi sento io e sono integro. Sono solo rotture di scatole più o meno forti o più o meno gravi, magari mi consumano un po’ ma la sostanza rimane».
Ho letto una tua dichiarazione su Wired. Dici che gli adulti pensano di poter controllare tutto ciò che fanno gli adolescenti ma è solo un’illusione, piuttosto dobbiamo dare gli strumenti interpretativi dei contenuti. La vedi in questo modo anche pensando a tuo figlio e alla transizione?
«Esatto, io non potrò mai controllare quello che lui penserà in merito a questo. L’unica cosa che posso fare è dargli gli strumenti per comprendere. E lui, col tempo, potrà riprendere questi strumenti, capirli più avanti e usufruirne. Pensando all’educazione in generale, credo che sia per tutto così. Non puoi imporre qualsiasi visione anche se positiva. Bisogna sfruttare la capacità di interpretare la realtà secondo delle indicazioni, secondo una mappa.
Noi possiamo dare ai bambini questa mappa e aiutare a spiegare il percorso, cosa troveranno nel percorso e far capire loro come si legge. Quindi, il bambino con una mappa si sente orientato ma sa che è una sua scelta percorrere certi posti e altri no. Io stesso sono autore di fumetti molto discutibili. Ma non puoi impedire che ci siano espressioni di un certo contenuto, devi renderti conto che avere a che fare con gli adolescenti vuol dire avere a che fare con persone in fase di sviluppo: non puoi dare dei contenuti e dire “arrangiati”. Ma neppure censurare.
Sono contro la censura perché prima di tutto è raggirabile ed è la prima cosa che fa un adolescente. È giusto che sia così, è giusto che un adolescente voglia trasgredire ma censurare incita contenuti fuori controllo. Il problema, invece, è che avranno a che fare da soli con quei determinati contenuti. Bisogna evitare di cadere nell’illusione che la censura sistemi le cose. Allora, stiamo attenti nel veicolare e nello spiegare i contenuti.
Però preciso: per me l’arte deve essere espressa in tutte le sue forme perché è arte. Ciò che manca è la sua interpretazione corretta. Interpretazione di un’espressione umana che è naturale ed è fantastica in ogni sua forma. Ma che comunque ha anche un lato oscuro imperscrutabile che può essere integrato a livello artistico ma senza esserne sopraffatti nella vita reale.
Ci manca l’insegnamento, ci mancano gli strumenti per capire quello che stiamo guardando. Gli strumenti sono anche un filtro. Filtrare fa in modo di non far prendere un contenuto in faccia. Se non ho nessun modo, nessuna mappa, mi arriva in faccia tutto. E questo è traumatizzante. Pensiamo di controllare l’umanità togliendo i contenuti forti perché così nessuno avrà l’idea di fare azioni negative. Pensiamo di poter manipolare in modo positivo i giovani con dei contenuti fatati.
Pensare che se ti racconto solo i buoni propositi allora sarai una persona solo con buoni propositi, è un delirio narcisistico. Il concetto è capire che le persone hanno la loro individualità e tu, al massimo, puoi dare gli strumenti interpretativi. Io ti faccio vedere com’è il mondo, ti faccio vedere come funziona e le cose non belle ma ti do la possibilità di interpretarle e così tu, ovunque sei, dove non c’è il mio controllo, hai la capacità di interpretare da solo ciò che ti capita. Di interpretare bene e solo di conseguenza sapere cosa è giusto fare nella vita».
Il tuo ultimo fumetto, Nine Stones, è stato descritto come “una lunga discesa nelle tenebre della violenza della dipendenza psicologica”. Il disegno ti ha aiutato a tirar fuori e sfogare ciò che sentivi dentro di te? E com’è cambiato il tuo tipo di disegno dalla transizione?
«Quella storia era una sublimazione, in generale, di tutta la mia repressione. Quindi fa parte di un altro aspetto sempre collegato alla disforia di genere. Quando ho avuto la bulimia anoressica per il rifiuto delle forme, ho avuto istinti lesionisti ma li reprimevo aiutandomi con il disegno. Quindi per me l’arte ha avuto una portata fenomenale in merito a questi aspetti. Ha reso possibile non farmi del male ma ho usato questo mondo per crearne una realtà di sfogo finta ma efficace.
Per fortuna ho sempre distinto molto bene cos’era la realtà e cosa la fantasia. Con la fantasia potevo sfogare molta frustrazione repressa, senza preoccuparmi di poter offendere qualcuno. Così ho creato la mia storia, che era una summa di questa repressione, in senso lato ovviamente. La storia del fumetto che ho creato in realtà è molto “semplice”. Certo, è studiata attentamente ma è molto viscerale e adolescenziale a livello sentimentale. L’ho voluta esprimere senza moralismi».
Cos’è per te la vita?
«La vita è una meraviglia, è complicata, è il tentativo di ritrovarci, di collegarci l’uno con l’atro, di conoscerci meglio senza ipocrisie, di capire come siamo fatti, sia i lati di luce che di ombra. Sembra che la vita sia il motore che ci spinge verso gli altri, e ci costringe ad arrenderci a noi stessi, di far cadere la maschera prima o poi.
In realtà è un togliere piano piano dei costrutti, avvicinandoci sempre di più al nostro nucleo. È “staccare” delle cose che ci sono appiccicate addosso dall’esterno, ed è quel meccanismo che a un certo punto, dovunque scappi, ti raggiunge. La vita è uno “stalker”, è come un liquido che ti segue ovunque. Ti puoi nascondere dove ti pare ma arriverà in qualche modo. Puoi anche arrivare al centro della terra ma ti raggiungerà lo stesso».
La tua canzone preferita?
«Ne ho tante ma ti dico l’ultima: “Dream State” (Son Lux). Parla della propria pelle e dei ruoli in modo molto poetico, al di là di un raccordo superficiale. La nostra pelle è intesa anche a livello dell’io, ovvero della nostra identità e la nostra maschera. È la pellicola che ci separa tra il dentro e il fuori».