Hany Ayoub Emam, massofisioterapista di origini egiziane, dal 2000 in Italia e ormai cittadino italiano, ci racconta la sua esperienza dall’Egitto al Bel Paese. Oggi è sposato con una donna italiana e ha due bimbi. Lui musulmano, lei cristiana, hanno deciso di lasciare libertà religiosa ai loro figli, decidendo di insegnare, prima di tutto, il rispetto e il significato della religione. Una meravigliosa testimonianza di come sia la vita di una famiglia interreligiosa insomma.
Con Hany abbiamo chiacchierato riguardo l’11 settembre, attentati, immigrazione, populismo e religione…
Chi è Hany Ayoub Emam?
«Sono egiziano, ho 45 anni e sono sposato. Mia moglie è italiana. Ho due fantastici bambini, sono due maschietti, uno di 7 e uno di 2 anni. Mia moglie si chiama Erminia Minniti, nata a Reggio Calabria. Sono massofisioterapista».
Cosa ti ha portato in Italia?
«Sono qui dal giugno del 2000. Sono venuto qui perché i miei ex titolari (italiani), conosciuti quando lavoravo a Sharm el-Sheikh, mi hanno proposto di venire in Italia a lavorare».
Prima di allora non avevi mai pensato di venire in Italia?
«No, pensavo di andare negli USA perché mia zia e i miei cugini vivono lì. Quindi sono venuto in Italia con l’intento di passarci un annetto e girare per l’Europa. Non mi vedevo qui. Poi, appena arrivato ho iniziato a lavorare qui e conoscere molte persone. La mia ex titolare, Giovanna Buongiorno, è stata una bravissima persona che mi ha reso tutto davvero facile a livello lavorativo e di documenti. In seguito ho conosciuto anche i miei nuovi colleghi. Eravamo una vera e propria famiglia, nel vero senso della parola. Abbiamo iniziato a lavorare insieme e mi hanno dato una mano per tutto. Ho abitato inizialmente in un paesino in provincia di Milano, a Vittuone».
Cosa ti ha fatto cambiare idea e decidere di restare qui in Italia?
«È stato grazie ai colleghi e agli amici conosciuti qui in Italia. È nato un vero e proprio rapporto di amicizia ed ero circondato davvero da tante persone».
Hai mai subito episodi di razzismo?
«Diciamo che c’è stato un vero cambiamento dal crollo delle Torri Gemelle, nel 2001. Ho iniziato ad avere un po’ di difficoltà perché alcuni hanno iniziato a puntarmi il dito, non le persone che frequentavo quotidianamente ma le persone in generale. All’inizio del 2002, quando ancora non parlavo molto bene in italiano ma solo in inglese, ho ricevuto insulti e parole molto pesanti da alcune persone: bastava che mi sentissero parlare in arabo per strada per insultarmi».
Nonostante questo, comunque, ti sei trovato bene in Italia?
«Sì, avevo dei colleghi e amici bellissimi quindi stavo benissimo con loro e da parte loro non è cambiato nulla verso di me. Le persone con le quali non avevo a che fare direttamente, però, si facevano influenzare tantissimo dalla tv e da una valanga di notizie false che venivano divulgate solo per aumentare gli ascolti. È così che si fomenta l’ignoranza e l’odio.
Ho una sorella giornalista a Il Cairo, anche grazie a lei so bene come vengono preparate certe notizie e certi articoli, in base al retroscena. Ma prima di divulgare le notizie bisogna informarsi bene e avere fonti sicure, però purtroppo spesso non è così. Spesso si usano le notizie, anche se non confermate, solo per aumentare gli ascolti.
Così nel 2002 e nel 2003, ho subito la pressione di questo evento e di questa paura divulgata. Dopo i primi anni, invece, le persone hanno iniziato a chiedere il perché certe cose fossero avvenute. Ecco, chiedere “perché” è un modo per aprire una porta e scoprire più informazioni. Pian piano quindi ho notato un maggiore interesse riguardo alla conoscenza della realtà, ed è proprio quella curiosità che porta le persone a informarsi meglio e conoscere meglio le situazioni.
È anche vero che molto dipende dal livello culturale delle persone: alcune cercano solo notizie false che confermano quanto avevano ipotizzato e fomentano la disinformazione tra di loro, dalle situazioni più banali, agli attentati. Tutto è guidato e tutto dipende dal bisogno di preparare e orientare l’opinione pubblica per fare in modo che, quando un Governo decide di attaccare un tal Paese, i suoi cittadini saranno concordi con lui.
Per fare diventare una persona terrorista non ci vuole molto, basta cercare il suo nome e associarlo con una notizia falsa negativa e poi tutto il resto lo fa l’immaginazione delle persone».
Dopo l’11 settembre hai vissuto sulla tua pelle la paura degli altri. Oggi, invece, con l’ondata di populismo così imperante, com’è l’atmosfera?
«Questa cattiveria gratuita nei confronti degli immigrati è deleteria. È ovvio che bisogna promuovere l’immigrazione regolarizzata ma bisogna permettere alle persone di entrare in Italia, controllarle e certificarle, dando loro la possibilità di vivere in una condizione umana. Non prenderle e sbatterle in mezzo alla strada: non bisogna trattarle male dopo averle salvate.
È un discorso di dignità: se queste persone sono andate via dal loro Paese è perché hanno bisogno di cambiare: hanno fatto un viaggio dall’interno del cuore dall’Africa, fino alla Libia (ovvero almeno 3-4mila chilometri su un camion, a piedi, su un cammello) e poi hanno attraversato il mare sapendo di poter morire. Ecco, se hanno fatto tutto questo, è giusto dar loro una buona occasione e non farle entrare facendogli fare una vita di inferno. Non farle entrare dicendo che rubano e sono criminali. Chi ruba, in Italia, sappiamo bene a che categoria appartiene: sono i signori con i colletti bianchi.
Cerchiamo di dire la verità alla gente in maniera corretta. Lo dico dopo 20 anni in Italia: gli italiani sono un popolo generoso, umano, con una coscienza forte. Oggi gli italiani non sono cambiati ma solo disorientati da alcuni politici che fanno mobbing tutti i giorni contro gli immigrati.
Lo stesso vale per gli attentati: ci vuole coraggio ad associarli ad un gruppo culturale o religioso. Il terrorismo non ha colore, religione, nazionalità. Pensiamo solo alla strage delle moschee di Brenton Tarrant in Nuova Zelanda… il terrorista è terrorista».
Tu sei musulmano, giusto?
«Sì, io musulmano, mia moglie cristiana. Non abbiamo nessun problema, viviamo in armonia. Adoro e amo mia moglie, più di me stesso. I limiti li mettiamo noi in queste situazioni. La religione non impone di sposarsi solo con persone della stessa religione. L’importante è il rispetto. Se manca il rispetto, manca tutto».
Cosa avete deciso per la religione dei vostri figli?
«Abbiamo deciso di crescerli in base alle regole “migliori”. Perché alla base della religione cattolica, ebraica e musulmana, ci sono il rispetto e l’educazione. Per noi musulmani Gesù è un Profeta e la Madonna un simbolo religioso molto importante. Per i cristiani è il figlio di Dio. Ma alla base c’è il rispetto per questa importante figura religiosa.
Così io e mia moglie abbiamo deciso di crescere i nostri figli insegnando loro il rispetto della religione. Poi, quando diventeranno grandi, sceglieranno quale religione seguire. Se vorranno fare altre scelte, saranno liberi di farlo. Quando saranno maggiorenni saranno loro responsabili delle loro azioni.
Sia io che mia moglie siamo stati cresciuti così e ora vogliamo tramandare il rispetto ai nostri figli. Siamo solo una famiglia normale che fa ciò che deve essere fatto. Non sono i soldi, né gli oggetti importanti, l’educazione e il rispetto lo sono. i miei figli non devono essere come me ma devono essere ciò che sentono giusto per loro».
Concludiamo con la tua canzone preferita…
«Te ne dico una araba: Amr Diab – Tamally Maak».