Anna Rita Lobozzo, 27enne pugliese, una laurea in finanza comportamentale e da qualche tempo a Milano per lavoro, vuole che il suo passato sia insegnamento per altri. Sì, perché quei 4 anni di anoressia (ormai alle spalle) non li scorda. E desidera, con la sua testimonianza, poter essere di aiuto a chiunque stia vivendo le stesse difficoltà. A cominciare dalla realizzazione di convegni nelle scuole.
Raccontami da quando è iniziato tutto…
“Credo sia iniziato tutto più o meno nel 2008, tra settembre e ottobre. Ho iniziato con una fase di bulimia, mangiavo e vomitavo provocando il vomito. Questo è durato fino a dicembre: vomitavo 3 o 4 volte al giorno, sia acqua che cibi solidi. Fino a che non mi sono rivolta a una nutrizionista perché il mio peso iniziale era più o meno sui 57 kg e sono arrivata a pesare 48-49 kg con questi alti e bassi.
Ma non è solo questione del mangiare, ti viene proprio un meccanismo che ti induce a distruggerti automaticamente. Quindi dopo questa prima fase ho iniziato ad avere problemi di salute come giramenti di testa. Mia madre ha iniziato a capire che avevo qualche problemino: mi si rompevano i capillari in faccia dallo sforzo e avevo occhi giallognoli con contorni viola. Quindi mi hanno portato da una nutrizionista: doveva essere la mia cura invece non aveva capito il caso e mi ha dato una dieta ferrea. Mi ha tolto cereali, legumi etc: mangiavo verdura e di sera poi mi causavo il vomito.
A dicembre, capodanno del 2008, mia madre mi ha scoperto mentre lo facevo quindi ho capito che non lo potevo fare più. Ero arrivata talmente a farlo di continuo, fino a 10 volte al giorno e il mio organismo quasi non riconosceva il vomito. Non so e non ho ancora capito, e questo è il dilemma, da cosa è partito. Non c’è una vera causa. Dopo, quando mi sono curata, mi hanno detto che può essere una patologia che io ho sempre avuto: da piccola non mangiavo molto. Quindi può essere che poi, in alternanza, si è ripresentata. Non c’è stata una vera e propria causa, come una depressione d’amore etc.
Così a dicembre ho smesso di provocarmi il vomito e ho iniziato a non mangiare. Fatto per me strabiliante è stata l’università: andavo alla mattina e tornavo alla sera, dicevo a mia madre che mangiavo. In realtà non mangiavo né bevevo nulla fino a quando arrivavo a casa. A casa ero obbligata a mangiare ma erano solo 10 grammi di pasta o facevo finta e la nascondevo. L’unica cosa che non ho mai abbandonato era la frutta. Mi nutrivo e, dico, ‘sono viva’ grazie alla frutta. Questo è andato avanti per circa 3 anni tra alti e bassi. Mi ha salvato continuare a mangiare frutta quindi gli zuccheri li ho sempre avuti, però eliminavo tutto il resto.
Ho avuto un periodo di autolesionismo: mi vedevo allo specchio e mi vedevo sempre quei 70 kg in più che non avevo. Quindi mi provocavo graffi etc ma è tutto conciliato nella malattia: ho studiato altri casi simili ed è tutto uguale. In quel periodo ho avuto alti e bassi ma, nell’ultima fase – giugno 2010 – ho iniziato a capire che dovevo fare qualcosa”.
Lo hai capito da sola?
“Da sola. Mia madre ormai non sapeva più cosa fare. Allora ho detto ‘andiamo a Prato, dove ho degli zii’, dove c’era una ragazza che loro conoscevano che aveva avuto questo problema. Ho parlato con questa ragazza e mi è sembrato di aprirmi un mondo. Mi è sembrato di iniziare ad uscirne ma era solo un’illusione. Sono ritornata a casa e ho continuato a perdere peso. Continuavo senza rendermene conto, convinta di stare bene e che potevo fare tutto”.
Anche se non mangiavi riuscivi a fare qualsiasi cosa?
“Anche se non mangiavo. In 8 mesi ho fatto 10 esami tutti da 30. Avevo una voglia di fare e di non stare ferma che era imparagonabile. Tutti si domandavano come io facessi. Facevo di tutto, gli esami, ho iniziato a fare parte di una associazione con la chiesa cattolica… facevo cose assurde. Dormivo pochissimo, massimo 6 ore”.
E avevi tante energie?
“Sì, ma è la malattia che ti porta a essere così. La malattia ti dice ‘devi fare quelle cose al giorno’ e le devi fare. Altrimenti, non riesci a fare quella cosa che potrebbe essere anche del tutto normale: è un motivo in più per non mangiare, qualsiasi causa la sfoghi sul mangiare. Fino a quando sono arrivata un giorno a pesare 29 kg, quindi avevo i vestiti dell’Oviesse quelli dei 12 anni e sono svenuta tornando a casa dall’università. Da lì ho capito che, probabilmente, non stavo molto bene. Però, continuavo a non volermi far curare da nessuno. Dal medico di famiglia no, dallo psicologo no. Da nessuno ma ho iniziato a titubare dicendo ‘qualcosa non va’. Mi hanno messo i punti sopra agli occhi perché avevo sbattuto cadendo e mi ero fatta proprio male.
Fino a quando, un giorno, mi è venuto a trovare un medico – non il medico di famiglia – perché avevo tutte piaghe in bocca: era la malattia che si sfogava così, erano le difese immunitarie. Lui mi ha detto che dovevo fare qualcosa. Abbiamo fatto una chiacchierata come la stiamo facendo io e te, di 2 ore e mezza. Parlando di non so cosa ma io ho parlato. Da lì abbiamo iniziato a parlare di tutto, anche cose stupide come cosa avessi fatto quella mattina. E, per me, è stato motivo di cercare di iniziare a bloccare quella che ero io e il mio mondo che mi ero creato. Ovviamente non è ancora tuttora facile riprendermi per me: anche se ora ho preso peso, ci sono i momenti in cui non mi vedo e quindi penso. Si guarisce ma non cancelli mai la malattia”.
Cioè ti vedi ogni tanto ancora fuori peso?
“Sì. Ancora tuttora. Però è una questione che, secondo me, ti rimarrà per sempre. Ora so come affrontarla, prima no. Prima la malattia aveva preso il sopravvento su di me. Ora so che, arrivata a un certo punto, mi guardo e dico ‘stai prendendo la strada sbagliata, cerca di ritornare’. Quindi mi so correggere. Però secondo me non si guarisce mai: non la cancelli. Non è un graffio che dopo qualche mese ti passa. È una cicatrice che ti resta.
Quindi, dopo questo periodo, ho iniziato a vedere miglioramenti su di me, fino al 2012 quando è iniziato a perfezionarsi. Ho avuto degli incontri con questo dottore che…”.
Era uno psicologo?
“No no, era un medico di famiglia. Secondo me era nato per fare il dottore. Sono quei dottori che hanno nel cuore proprio questo mestiere. Facevamo degli incontri dove parlavamo del più e del meno, di cosa avevo fatto all’università. Probabilmente è stato quel di più che mi serviva per aprirmi e iniziare a parlare con qualcuno che fosse diverso dalla mia famiglia.
Mia madre ha fatto 10mila cose ma, probabilmente, mi serviva una persona esterna. Ho iniziato a riprendere a mangiare. Ora ho vari disturbi alimentari, delle intolleranze causa di quello che non ho mangiato ma diciamo che ho iniziato a rifarmi una vita: rifarmi degli amici, avere un mondo intorno che non fosse solo il mio e la malattia. È stata difficile: non accetti il fatto di avere una trasformazione. A prendere vestiti taglia bimbo e poi devi prendere una 45/46…
Nel 2012 ho ripreso un peso normale, fino a quando non ho iniziato a mangiare in più perché è normale avere degli sbalzi, poi mi sono cercata di contenere. Ora sto avendo un periodo un po’ di dimagrimento ma a causa dello stress, del lavoro… quello è normale e credo sia successo a tutti.
Il motivo, ripeto, non so quale sia stato: forse vari motivi. Il motivo principe non lo so”.
Ma questi vari motivi sei riuscita ad analizzarli?
“Sì, mi ero lasciata con il mio ex e quello potrebbe aver influenzato. A casa non ho mai avuto una situazione brillante, quindi può essere una causa. Però, tranne in università che mi è andata sempre bene… definirti il problema, non lo so: possono essere una serie di problemi compreso questo problema che ho sempre avuto da piccola. Quindi, l’unione di tutti questi problemi è sfociata un giorno in questo. Il motivo cardine, effettivo, non lo so. Probabilmente forse solo con la psicoanalisi lo potrei capire ma ora non mi interessa neppure più”.
Sei stata solo con questo medico generico quindi, nessuno psicologo neppure dopo?
“No ma non lo accetto neppure adesso. Secondo me è proprio una violenza personale che si fa. A volte non serve, l’aiuto esterno serve fino a un certo punto ma la spinta te la devi dare tu. Ora conosco un sacco di ragazzi che hanno lo stesso problema: li portano nelle case a fare il trattamento obbligatorio sanitario e dopo due mesi escono, sembra stiano bene ma poi ricadono nuovamente nella malattia perché loro non è quello che vogliono a livello mentale. È proprio a livello cerebrale che ti deve scattare la molla che dice ‘da domani cambio’”.
Deve scattare dentro di te e devi avere anche un aiuto quindi?
“Un piccolo aiuto e supporto da quelli che ti sono vicini. Ma la spinta la devi avere tu. Non ti possono dare una alimentane forzata pensando di risolvere il problema. Il problema non è mangiare, il problema è dentro di te, di non vederti, che sfocia nel mangiare o non mangiare. Perché chi è obesa ha lo stesso problema. Noi cercavamo di levarci cibo. Il fatto di levarsi: è come se avvenisse una purificazione. Digiunando completamente cerchi di ristabilire quella mancanza che hai, è come se fosse una compensazione tra le due cose. ‘Non mangio per farmi del male perché me lo merito’”.
E tu cosa pensavi?
“Pensavo che me lo meritassi. Mi vedevo allo specchio e pensavo che me lo meritavo ma non ne so il motivo. La cosa strana è che non ne riesci a capire il motivo e diventa talmente un meccanismo che, anche se tu non lo vuoi, è talmente entrato dentro che lo fai inconsapevolmente. Quindi non devi mangiare, devi vomitare, etc e ti pesi ogni volta. Questa malattia mi è rimasta ancora adesso: ogni volta che mangio mi peso. Ma se questo è l’unico problema che mi è rimasto non mi interessa, può anche rimanermi per tutta la vita. Poi è stupido… se mangi è normale che prendi quei 200 gr di ciò che hai mangiato in quel momento, dopo mezzora non ce li hai più.
All’epoca avevo una tabella dove mi segnavo, giorno per giorno, l’assunzione delle calorie. Avevo un programma sul cellulare che mi calcolava: cose maniacali che se tu ci pensi ora… è possibile che uno poteva calcolare o, addirittura, pensare di arrivare a certi livelli? Però ci arrivi. Non sai come ma ci arrivi. Il problema che, secondo me, dovrebbe essere realizzato è che è nel percorso di discesa che bisogna aiutare qualcuno. Non è vedere dove arriva e poi salvare: è già nel corso d’opera. Ci sono persone che già lo accettano, a livello di famiglia certi lo accettano, certi no. Nella mia famiglia, mia madre ha capito subito la problematica, mia sorella un po’ meno. Non lo accettava”.
Di fronte all’evidenza non lo accettava?
“Non lo accettava. Forse non lo sapeva neppure lei come accettarlo. Invece mia madre è andata diretta. Mia sorella cercava di sminuire la situazione, diceva che ero viziata, mi volevo mettere in mostra. Non riusciva a capire perché lo facessi o sviava il discorso. Diceva: ‘Va be’, è a casa mia che non mangi’. Cercava sempre di trovare una alternativa alla realtà. Mia madre no”.
È tua mamma che ha portato il medico a casa?
“Sì…
…È la prima volta che racconto ciò che ho passato. Il mio obiettivo è questo: voglio esprimere lo sbaglio che ho fatto io per far sì che altri non lo commettano. Oppure affinché chi è in una famiglia possa aiutare: perché a volte si pensa solo a portare il ricovero. Ma non è il ricovero la prima questione, è avere qualcuno vicino. C’è un libro che si chiama ‘Tutto il pane del mondo’. L’autrice racconta la sua storia: il problema non è lo sfociare nel cibo ma chi si è dentro. Fino a quando non hai capito chi hai dentro, il cibo è l’ultima soluzione”.
Tu l’hai capito chi avevi dentro?
“Io ho capito ora come affrontare. A volte potrebbero essere anche delle paure che tu hai. Quindi affronta le tue paure non ricadendo nel cibo ma face to face. Mettersi davanti allo specchio non per guardarsi ma per dire ‘questo è il mio problema, lo posso risolvere in questa maniera e non nel cibo’. Però ce ne vuole, lo devi capire e razionalizzare giorno per giorno. Non può venirti così al volo.
Io dal 2008 ne sono uscita nel 2012 non diciamo alla perfezione: è un cammino. Ci sono ragazze che ne escono dopo 10 anni. Io mi ritengo fortunata, ci ho messo pochi anni. Ci sono ragazze che, dopo 10 anni, sono ancora in cura: o perché non hanno capito qual è la cura da utilizzare o sono state abbandonate a se stesse. Se la famiglia dice ‘io non ti capisco, non ti voglio aiutare’, ti mettono in un angolo e te la vedi tu. Non è il massimo come famiglia”.
I tuoi parenti esterni invece come si sono comportati?
“Ad esempio, questa zia di Prato mi ha fatto andare a conoscere quella ragazza: mi è stata vicino. Ma tu non lo vuoi l’aiuto, devono trovare il modo di non fartelo pesare. Se io ti vengo vicino e ti dico ‘no, Anna Rita mangia’, no. Anzi, mi ostacolava ancora di più. Io invece con questo medico parlavo di tutto: mi ha spinto forse sottilmente o forse ha usato le parole giuste, non lo so, ma ha fatto smuovere in me quella cosa che mi ha fatto capire che il cibo non era il problema, ero io. Ero io che non mi accettavo, ero nel mio mondo”.
La tua mente ti faceva vedere così…
“Era una distorsione che hai e non riesci a recuperare. Non riesci ad avere una visione reale di come sei. Hai sempre l’immagine di quella che ti sei creata. Della perfezione che poi è uno scheletro. Però tu non ti vedi. Io vedevo che le maglie mi andavano larghe ma mi dovevano andare ancora più larghe. Non hai più la percezione della realtà. Ora lo dico ‘sono stanca’. All’epoca non esisteva nel mio vocabolario. Ora ne sto pagando le conseguenze perché dico ‘ma che me ne importa’. È una causa che il corpo deve ristabilire piano piano. Inizi ad essere esaurita, hai dei comportamenti da schizofrenica a volte”.
Ad esempio?
“Se entrava una vicina di casa che è sempre venuta a casa e io in quel momento non avevo proprio voglia di vederla, per qualsiasi motivo, iniziavo a piangere. Pianto isterico, autolesionismo. Oppure: mia madre aveva comprato una cosa e non mi andava che l’avesse comprata e io diventavo furibonda. Non era solo la questione del non mangiare, era un approcciarsi alla vita distorto: ogni cosa è contro di te. È una cosa che, se la famiglia non sa affrontare, ti caccia. 3 o 4 anni sono pesanti per una persona normale: per te sono normalità, per gli altri no. Chi ti vede in quello stato ha difficoltà a sopportarti”.
I tuoi amici, durante l’università, c’erano? Ti dicevano qualcosa?
“Avevo un’amica che è completamente sparita. Tanto amica non lo era. Gli altri, le persone che mi erano vicino, famigliari o amici di famiglia, avevano paura di affrontarmi. Probabilmente, a volte, hanno detto anche cose che potevano risparmiarsi di dire. Quindi, a volte, li ho tagliati io fuori dalla mia vita”.
Offese?
“Offese e anche ‘ma perché non ti guardi, ma vedi come ti sei ridotta, ma perché non fai qualcosa?’. Tu, in quel momento, sei già distrutta per te: sentirti dire queste cose… forse non sono neanche gravi ma a te fanno male. Quindi ho creato dei muri con persone con cui non parlo più. Un’amicizia vera era questa: perché si è allontanata non lo so. Probabilmente non sapeva affrontare la situazione o non accettava il mio farmi male in questa maniera.
Molti non sapevano neanche cosa dirmi. Quindi, mano a mano, hanno cercato di allontanarmi in qualche maniera banale. All’università cercavo di non crearmi amicizie: significava dare spiegazioni. Seguivo dei corsi come un automa e andavo da sola in giardino ad ascoltare la musica. Non cercavo mai un gruppo, non parlavo mai con nessuno, mi isolavo.
Dopo ho rivisto delle persone venirmi vicino e lì ho capito chi lo stava facendo per capirmi e chi mi usava in qualche modo, voleva curiosare. Con una mente lucida poi ho fatto una distinzione di chi mi ha veramente aiutato o di chi era solo curioso”.
Una persona come dovrebbe approcciarsi?
“Non c’è una linea standard. Ognuno ha una vita e un vissuto particolare. Credo con la maniera più semplice possibile, stare vicino veramente con il cuore. Non ostacolando in qualche modo o aiutando solo nel cibo, quello in seconda fase. Ma proprio supportarla. La cosa difficile è che non c’è una linea standard: ci sono ragazze violentate che si riducono in questa maniera: da una violenza va affrontata la doppia psicologia. Non c’è una medicina, non è un mal di testa. Ma tanta pazienza, quella sì, ma tanta”.
Ora tu cerchi di aiutare altre ragazze?
“Io spero di aiutare altre ragazze. Mi piacerebbe portare un progetto e raccontare nelle scuole. Per ora non ho trovato la via. Non raccontare io per essere la figa del momento, no. Per raccontare. Nella scuola si parla di Aids, qualsiasi altra cosa. Ma non di questa problematica nonostante in tantissime l’abbiano avuta.
Che poi non è solo femminile: la maggior parte anche maschile. Ma i maschi… ‘no, non possono avere questa malattia’. Invece ultimamente è più maschile che femminile. Quindi mi piacerebbe portare me, come altre ragazze, a fare un convegno nelle scuole e parlarne. Dire ‘ne parlate a casa? No. Perché non ne parlate?’. È una malattia che ti colpisce da un momento all’altro. Come un mal di testa che ti viene, solo che il mal di testa lo curi sul momento, quello è un po’ più difficile”.
Queste altre ragazze che conosci, sono guarite?
“Una ragazza è guarita, io dico come me, nel senso che si è impegnata da sola. Ha avuto all’inizio solo un po’ di supporto solo a livello di analisi. Un’altra ragazza non ne ho più notizia: è entrata in trattamento sanitario obbligatorio e non so se ne sta uscendo: quando entri in queste cliniche ‘dorate’, belle perché paghi un sacco di soldi, ti levano il mondo. Ti levano il contatto con l’esterno. Per due o tre mesi non riesci a comunicare con nessuno, neppure con la tua famiglia a volte. Loro hanno questa ideologia che ti devono prima rintrodurre in te stesso e poi…
A me questi metodi non piacciono. Io sono contro il metodo obbligatorio, ormai lo ribadisco da anni sui social network. Non si può. Altri dicono che è l’unica maniera per uscirne. Ovviamente, come in tutte le cose, ognuno ha la propria ideologia.
Con alcune sono in contatto, mi scambio un minimo di messaggi a volte. Poi, io cerco sempre di entrare con il minimo della discrezione perché so quanto ne puoi soffrire. Una parola in più, una in meno, possono creare un mondo dietro”.
Come hai trovato queste ragazze?
“Tramite social”.
Ci sono dei gruppi su Facebook?
“Allora, c’è una cosa che è bruttissima. Non so neppure se esista più ma, quando ero ammalata, c’era. ProAna, un gruppo, come un blog, dove non puoi avere accesso se non sei anoressica. Quindi ti alimentavano la possibilità di diventarlo. C’era proprio l’amministratore: se, per dire, bevi una cosa e lui si rende conto che non è vero quello che scrivi, ovvero sei un esterno che scrive per finta, ti blocca. Nel momento che capisce che tu veramente hai questa malattia, ti spinge su questa cosa.
C’erano tutte ragazzine di 14, 15 anni che si iscrivevano. Dicevano: ‘Tu oggi come hai fatto per vomitare? Io non riesco più’. Oppure ‘come hai fatto a eludere mamma per non mangiare oggi’. Quindi ci si scriveva, era tipo una chat online. C’erano quelli ‘bravi’ che ti davano i consigli: ‘Oggi non mangiare questo, oggi non mangiare quello’. ‘Oggi zero calorie’, quindi tu, per tutta la giornata, dovevi digiunare”.
Tu seguivi questi consigli?
“Sì, all’epoca sì. Alla grande. Erano oro colato per me. Se l’amministrazione ci imponeva di non mangiare niente quel giorno oppure assumere 100 calorie, tu – che in quella situazione sei fragile – sentire uno che ti dà quello che pensi sia il consiglio della tua vita, 100 calorie facevi di tutto per non superarle. Quindi, con la calcolatrice alle mani, facevi il calcolo di quello che potevi e non potevi mangiare. Ero capace di pesare anche il caffè, una fettina di mela… calcolare nei minimi dettagli.
Poi, con Facebook (mi sono iscritta nel 2012, quando quasi ero uscita del tutto dalla malattia, e su Instagram uguale), ho iniziato a usarlo attraverso gli hastag ‘ProAna’, ‘SenzaAna’ etc, ho iniziato a conoscere queste ragazze.
Ho iniziato a studiare neuroscienze anche per questo e quindi mi si è aperto il mondo, quindi ho iniziato a studiare casi simili ai miei e a capire molte più cose di quelle che sapevo prima. Ovviamente tu non ti senti malato, per la legge italiana noi non siamo malate. Abbiamo disturbi psicologici ma non siamo malate. Ai fini pensionistici non ti viene riconosciuto niente. Una che ha questi disturbi alimentari e vuole un permesso di malattia non è riconosciuta. Siamo molto indietro ma dicono che abbiamo solo disturbi psicologici ma non malattia. Si muore ma non è malattia. Questa è la legge italiana”.
Mi dicevi che, secondo te, c’è stata una maggiore influenza di questa malattia nei nati dell’88…
“Secondo me sì. Forse è un caso ma parecchie ragazze sono dell’88 e stanno avendo questa problematica. Non so se è un accumularsi di newsfeed di Instagram o Facebook o perché proprio ci concentriamo in questo periodo. Non lo so, è un’analisi che mi piacerebbe fare successivamente. Però, non puoi entrare ad avere i dati delle case cliniche perché non li danno. È un lavoraccio.
Però con le ragazze, dell’’87 e ’88 bene o male, sono in contatto. Non so perché, forse era un evento mediatico: le modelle dell’epoca che c’erano venivano viste e altre sono ricadute in quello stile. La maggior parte delle ballerine classiche sono tutte anoressiche ma per una imposizione, se non sei 29 kg non puoi fare la ballerina.
Io sono un metro e 67: 29 kg erano brutti. Hai visto le foto su Facebook: ero ‘leggermente’ diversa. A volte, qualcuno che mi vede dice ‘non sei tu’. Ero io. Io dico che quella è la parte brutta di me e ce l’ho ancora dentro. Ora c’è l’involucro fuori. Però… tipo le caramelle, vanno scartate. Al massimo non ti piace quello che c’è dentro ma l’involucro c’è”.
Involucro che hai sanato…
“Diciamo che, a volte, l’apparenza inganna. La malattia c’è. Cova, è ristretta e chiusa adesso. Spero non esploda di nuovo adesso. Però, ora so affrontarla in maniera diversa”.
E ora come ti vedi?
“Ora mi vedo ‘tanta roba’. Vorrei riscostruire tutto e avere una vita normale”.
Progetti nella vita?
“Progetti nella vita: diventare una personal brand. Costruire un’immagine di me e aiutare qualcuno mi farebbe tanto piacere. E trovare un lavoro che soddisfi me come persona ma non a livello economico, proprio riempire delle mancanze che ho. Per questo sto affrontando questo cammino delle neuroscienze e delle neuro tecnologie”.
Raccontiamolo…
“Ora è più neuro tecnologia (Facebook, social etc), però il cardine sarebbe proprio affrontare a livello psicologico queste malattie. Quindi fare uno studio sulla neuroscienza ma a livello di disturbo alimentare. Qualcosa ho già in mano ma il cammino è lungo anche perché non se ne parla. Non c’è un programma dedicato a questo.
Non puoi prendere spunto da niente. In Italia non si riconosce neppure. A livello psicologico c’è tanto ma proprio a livello di come aiutare, no. Ricorrono alle cliniche. Invece, a me, piacerebbe più utilizzare il lato umano per capire chi è la persona e quale bisogno ha di aiuto. È un progetto, mi piacerebbe aiutare qualcuno. Chissà se qualche scuola si illumina e pensa possa essere una buona idea parlarne”.
Ma sarebbe meglio alle scuole superiori o alle medie secondo te?
“Credo già dalle elementari, lì sarebbe però difficile farlo capire. Alle medie sì: immagina che ora la soglia si è abbassata. A 11 anni ci sono casi di anoressia grave. A volte sono dovuti ai divorzi tra genitori, cosa che si ripercuote tra i più piccolini. I più grandi magari hanno i modelli o cantanti da imitare. Però già dalle medie, in seconda media, usando metodi non brutali, fare già percorsi e progetti, potrebbe essere la strada giusta.
Ma non rivolgendosi solo ai ragazzi. Mi piacerebbe fare un progetto che sia rivolto a tutti: alla famiglia e ai ragazzi. Perché la famiglia non se ne vuole accorgere e i ragazzi non ne parlano. Quindi fare incontrare famiglia e ragazzi sarebbe l’ideale per capire come nasce il problema e risolverlo. A volte è la famiglia”.
Hai provato già a parlarne con qualcuno?
“Avevo iniziato a pensare di farlo nella scuola del paese dove abito ma è improponibile. Volevo cercare con il centro Aba, qui a Milano. Prossimamente, visto che ora sono a Milano, mi ci rivolgerò. Se poi ci sono altre strade, se questo articolo può essere l’inizio di qualcosa, che ben venga.
È difficile parlarne ma dico, se può salvare almeno un’altra, almeno una. Il mio malessere almeno può essere di aiuto a qualcuna, solo questo. Non voglio essere la prepotente di turno, no. Però se la mia parola può essere di aiuto almeno ad un’altra… almeno qualcosa ne è valso. Almeno provandoci. Non è detto che parlandone si può risolvere. Ma almeno creare una situazione tale in cui una persona possa essere messa al centro e capire qual è il suo limite. Penso possa essere già un buon punto. Poi, ovviamente, ci vuole tanto tempo e tanta consapevolezza. Ma almeno capire da chi sono e analizzarsi”.
Illuminare un pochino la strada…
“Sì e pure distogliere lo sguardo: se la bilancia diventa il tuo secondo obiettivo e non il principale, già qualcosa hai modificato. Poi qualche pecca rimane. Io mi peso ancora 20 volte al giorno. Ma ora mi peso e dico ‘ma chi se ne frega’. Ben venga che prendi 1 kg in più”.
E poi ti piaci molto di più…
“Mi piaccio. I difetti me li vedo sempre ma, rispetto a prima, mi accetto. Alla fine è quello il punto: accettarsi per come si è. Nessuno è Dio in persona, perfetto e preciso. Però è dura. È dura perché ci combatti ancora tutt’oggi. Anche se a volte posso essere esuberante, a volte è una maschera che ti crei per distoglierti”.
Perché ci pensi?
“Perché a volte ci ripensi: ‘Forse ritornare indietro sarebbe la strada giusta?’. Poi però dici ‘cavoli, ti ricordi?’”.
Cioè un po’ di tentazione c’è?
“Sì. Dico che è come l’uomo nero. Rimane sempre nell’oscurità però, prima o poi, esce. Sta a te farlo rimanere nell’oscurità e non farlo riuscire. Ma devi avere una consapevolezza tale di te stessa da frenare ogni volta l’uomo nero che vuole uscire. Devi cercare di frenarti, frenare la parte cattiva per fare emergere quella migliore. Però è una lotta continua. Non è che uno guarisce e si guarda allo specchio ed è contento. Secondo me non capiterà mai con nessuna, neppure con chi dice che ne è uscita. Ne sei uscita ma combatti ogni giorno”.
L’omino nero c’è quindi?
“L’omino nero c’è. Piccolo ma c’è. Può essere che un giorno arriverà un momento in cui quell’omino nero non esisterà più e io me lo auguro. Ora sai come combatterlo però”.
Quindi prima tappa la consapevolezza?
“Assoluta, per forza. Perché, se non riesci a capire che hai un problema, non lo riesci neanche ad affrontare. Chi è dipendente dall’alcool o gioca alle macchinette ha la stessa situazione. Sono tutti problemi mentali che, se non riesci a capire qual è la fonte del problema e qual è il problema (cioè accettarsi che è una malattia), non puoi superarlo. Fino a prima tutto va bene. Non vedi mai che stai male, che non ti reggi in piedi, che la gente ti guarda.
Devi continuare a lavorare su te stessa, giorno dopo giorno, lavori di continuo. Può essere che sia il miglioramento di te stessa. Non tutti ce la fanno. Una ragazza di Genova è morta di questo. A volte non viene neppure detto: è morta, punto. La famiglia lo tiene nascosto. Molte ragazze sono state messe in istituti psichiatrici e non ne sono mai uscite e il problema non era a livello mentale ma di consapevolezza di se stesse. È un mondo di cui non se ne parla. Come gli omosessuali, era un taboo: fino a quando non se parlava… ben venga, ognuno ha la propria vita, quindi ben venga. Parlarne aiuta molto”.
Cos’è giornata del Fiocco Lilla?
“È il 15 marzo. Il padre di una ragazza morta di anoressia ha istituito questa giornata e fondato una associazione (e un sito ndr.) che si occupa di disturbi dove ragazze vanno lì e cercano di parlare con psicologi senza trattamento sanitario obbligatorio. Solo colloqui con psicologi, come dovrebbe essere.
Questa giornata del Fiocco Lilla chiede di indossare un fiocco in ricordo della figlia che non ce l’ha fatta. Il padre vuole aiutare come me. Rendiamo almeno partecipe l’Italia di questa problematica. In America se ne parla molto di più. Su YouTube, la maggior parte delle ragazze che si raccontano, sono americane. Sono poche le italiane che trovi che ne parlano: siamo in un paese dove i taboo regnano sovrani. Perché ne parli? Perché può essere d’aiuto. Perché a me aiuta oggi parlarne con te. Perché aiuta. Ma siamo in questo mondo. Se questo mio vissuto può aiutare, ben venga. Aiuta anche chi è nella malattia parlare”.
Un genitore che è vicino…
“Un genitore può fare tanto. Nel modo giusto può fare tanto. Mia madre è andata da uno psicoanalista per capire se lei era un problema. A volte, il legame madre-figlia è talmente forte che le mamme non sanno come rivolgersi al figlio. Mamme chiocce che, a volte, si approcciano nel modo sbagliato. Poi, da figlia, ti rivolgi sempre a tua madre perché cerchi in lei quella che ti deve capire ma lei non sa come capirti. Quindi si crea questo astio a volte dove tu cerchi in tua madre qualcosa che lei non ti può dare perché non sa come affrontare. A volte la famiglia deve rivolgersi a qualcuno per capire come affrontare. Mia madre l’ha fatto ma non tutti i genitori sono uguali.
Bisogna trovare una strada ma l’importante è che la famiglia sia vicino. Non giudicando ma a livello emotivo. Supportare in una scelta e in un cammino che può far male nella rinascita ma sicuramente dopo esplode. Ti aiuta ad essere una persona nuova. Questo dovrebbe fare la famiglia. L’importante è che ci sia qualcuno che non ti abbandoni. Già sei abbandonato a te stesso. Lasciare sola vuol dire tagliare da qualsiasi ponte”.
Ti parcheggiano nelle cliniche….
“Ti parcheggiano nelle cliniche trovando nella clinica la soluzione. No, la soluzione deve venire dentro di te. Ovviamente devi iniziare a mangiare. Ma la prima soluzione scatta con te: così il cibo inizi ad amarlo per quello che è. Se non scavi dentro e cerchi di mettere a posto le cose che per te non vanno, non arriverai mai da nessuna parte. È questo il problema.
A volte, si sa… una delusione d’amore, affrontata nella maniera sbagliata, può portare a questo. Quindi vai a rimediare… non con un altro ragazzo ma analizzando la situazione. Nel mio caso possiamo essere mille fattori, una questione congenita…”.
Cioè era nella tua psiche?
“Sì, può essere una questione neuronale, a livello di inconscio. Però è una cosa da affrontare. L’importante è stare vicino a livello cerebrale, di supporto. Non mangiando il cervello prende direzioni fuori dal normale”.
Come dicevi l’isterismo…
“Isterismo, autolesionismo, super attività. Tutte cose che una persona normale non fa. Ci sono ragazze che si fanno male con la lametta. Lo fai perché devi provare dolore su te stesso e, ogni momento che provi dolore, è gratificante per la tua malattia”.
Cioè tu in quel momento stavi bene…
“Se ti fai dolore sì, se non mangi sei gratificato. Ogni cosa che non fai, è come se fosse una purificazione di te stesso. È un venir meno, un levare qualcosa che ti dà fastidio. Fino a quando non arrivi a non avere più niente e cerchi di levarti lo stesso qualcosa. Perché la sfida con te stessa non è mai finita. Devi sempre levare, levare, levare. Ma alla fine non puoi levare più niente. Non cammini neanche più da sola.
Ci sono tanti problemi, io ne ho avuto più alimentari, come intolleranze. Però ci sono problemi come insufficienze respiratorie, problemi intestinali o cardiovascolari, problemi seri. Nel mio caso è stato breve, 4 anni. Ma rispetto a chi ha percorso 10, 15 anni, è grave. Ci sono persone che non si possono più alimentare e mangiano solo omogenizzati, nonostante ne vorrebbero uscire ma ormai l’organismo non ne può più. Io, nella sfortuna, sono stata fortunata. Probabilmente il mio disegno era così”.
Credi nel destino?
“Credo che ce lo facciamo il destino ma penso che era destino che io mi dovessi riprendere”.
E cosa c’è nel tuo destino ora?
“C’è una vita che spero non ricada in quella precedente e spero di colmare. Curo molto me stessa e cerco di avere me in prima persona. Me ne frego degli altri. Mi studio, mi analizzo, mi metto in riflessione ma lo faccio in uno spirito diverso, totalmente. Anna Rita diversa, più eccentrica rispetto a prima”.
Chi è Anna Rita?
“È tanta roba. È un misto tra, a volte, fare apparire una persona che ancora non lo è ma tenta di esserlo e cerca di essere più allegra rispetto a prima. Un po’ di brio rispetto a prima. Era una depressione brutta e angosciosa, ora cerchiamo di metterla da parte e viviamo un po’ con tranquillità. Che poi le batoste ti arrivano una dopo l’altra”.
Per altri aspetti della vita…
“Tipo la morte di mio padre un mese fa… però sai il modo come affrontarlo. Ci sono stati anche altri problemi ma sai come affrontarli. Non è il cibo la strada ma uno studio su te stessa. Modelli tutto affinché quell’omino nero non appaia. Tutto qui. Uno studio su te stessa rimodellato nel tempo. Poi ogni periodo non riesce alla perfezione, ci sono periodi di stress ma riesci a rimodellarli. Poi ti riprendi e va tutto bene”.
Insomma, i problemi si possono affrontare, qualsiasi siano…
“Sempre, quello sempre. Ma credo che per tutti sia così. Uno con il sorriso, uno meno, ma il problema, se va capito, va risolto, non c’è altra storia. Nascondersi dietro ‘avrei potuto’ non esiste”.
Posso…
“Posso, punto. Anzi, devo. È un dovere per chi ti ha messo al mondo e per te stessa. Un dovere per la vita. Non puoi decidere di eliminarti per delle stupidaggini. Per una cattiveria detta… i fenomeni di bullismo? È lo stesso. Tendono a levarsi la vita per una parola non detta e capita male. No, non esiste. Per me non esiste più, ormai del giudizio della gente non me ne frega più niente. Esisto io e basta. Piaccio o non piaccio, simpatica o non simpatica, amen. Se ne faranno una ragione”.
Mentre prima il giudizio delle persone ti condizionava
“Prima ti annientava. Qualsiasi cosa pesava non 10 ma 100 volte su di te. Hai una fragilità interiore che è talmente elevata che il giudizio di una persona conta. Conta nel modo di distruggerti, aumenta la tua distruzione giorno per giorno. Forse una parola di conforto, per te può essere un annientamento. Bisogna capire prima il modo di affrontare queste persone, non giudicare. A volte si tende a giudicare.
Proprio ieri sera leggevo un articolo su Facebook riguardo a delle modelle. La ragazza che ha pubblicato questo articolo ha chiesto ‘ma la madre di questa ragazza dov’è?’. Io sono andata in tilt, non puoi giudicare il vissuto di una persona. Magari la mamma sta facendo di tutto e la ragazza non riesce a capirlo o la mamma non ce l’ha neanche. L’hanno detto di mia madre. No, ma di nessuno, mai giudicare.
Mettiti le scarpe mie poi inizia a giudicare. Poi, forse, sai un po’ di quello che ho passato e sto vivendo, forse. Mai giudicare: qualsiasi sesso, religione… mai. Ora sono in contatto con un italiano e 10mila brasiliani (lavoro in occasione di un festival latino americano ndr.): capisci veramente che non bisogna giudicare mai. Perché non è il brasiliano quello che ti violenta… no. Ognuno ha un vissuto, una storia a sé. Non ce lo possiamo permettere. Perché, se poi ci mettiamo lo specchio davanti, ognuno ha i propri difetti”.
Potete seguirla qui: annaritalobozzoblog.wordpress.com