Si fatica a trovare aggettivi che descrivano in maniera soddisfacente il carattere, la determinazione, lo spirito e la preparazione di Valeria Tuzii e Federica Di Marco, giovanissime fondatrici della neonata Milo Film Produzioni, casa cinematografica di Avezzano, in provincia de L’Aquila.
Abruzzese l’una, laziale l’altra, accanto a corsi di sceneggiatura, la London Music School e inizi di carriera nella musica e nel giornalismo (Valeria), al lavoro con la compagnia teatrale Artisfabrica (Federica), e agli studi universitari di lettere (entrambe) hanno incrociato i loro cammini artistici molto variegati presso l’Accademia Renoir di Roma. Le due hanno successivamente deciso di lanciarsi insieme nel complicatissimo mondo della produzione cinematografica indipendente.
Le abbiamo conosciute grazie al cortometraggio Sotto La Città – 1915, in produzione alla loro Milo Film e scritto dall’avezzanese Domenico Tiburzi “traducendolo” dal suo bellissimo monologo teatrale omonimo. Laureato in ingegneria meccanica, successivamente diplomato in recitazione all’Accademia del Teatro Senza Tempo di Roma e allievo della Golden Star Academy e del Centro Alta Formazione Teatro, Domenico ha all’attivo una carriera teatrale come attore e sceneggiatore ed è all’esordio alla regia cinematografica. Eppure non si direbbe, data la visione coraggiosa e le idee originali che dimostra di avere per questo progetto, in crowdfunding da qualche mese. Il protagonista, bloccato senza tempo sotto le macerie del terremoto che distrusse Avezzano nel 1915, sarà interpretato da Lino Guanciale, marsicano proprio come Valeria e Domenico.
In un’uggiosa giornata d’inizio aprile, abbiamo incontrato produttrici e sceneggiatore/regista per chiacchierare di arte a matrice indipendente, di Sotto La Città e della “terra che trema”, per l’Abruzzo e per tutti quanti.
Video e intervista in collaborazione con Valentina Colombo e I. Capitanio
Come nasce Milo Film, e qual è il suo obiettivo?
Federica Di Marco – Il progetto è partito a settembre 2018, con la chiamata che mi ha fatto Valeria, motore principale della Milo, dopo il nostro incontro al corso di produzione dell’Accademia del Cinema Renoir. Abbiamo deciso di iniziare questo percorso anche per cominciare a fare qualcosa di concreto: tutto quello che abbiamo studiato e le persone che abbiamo incontrato ci hanno dato una spinta morale a non fermarci alle sole nozioni da noi apprese.
Valeria Tuzii – Quando abbiamo lavorato ai corti di fine corso – che erano dodici! – improvvisamente il resto degli organizzatori nostri colleghi era sparito, e ci siamo ritrovate noi due da sole con dodici corti da girare in quindici giorni. Quindi quando mi è venuta l’idea di Milo Film, mi sono guardata attorno e mi sono detta: «Posso farlo solo con Federica!». Ha detto di sì, ha fatto quest’errore madornale… Milo deriva da un termine germanico che significa letteralmente “anima predisposta a condividere l’arte”, e nasce come un’associazione, perché aprire una società richiede risorse, responsabilità e impegno particolari, e inizialmente dovevamo capire se potessimo davvero farlo, questo lavoro. Ci è capitato per le mani un primo progetto che abbiamo girato entro dicembre 2018, e subito dopo il progetto di Domenico. Per cui stiamo iniziando bene! Poi per una sorta di congiunzione astrale ha cominciato ad arrivare una raffica di progetti nella casella mail: da lì abbiamo deciso di farla diventare una società.
F.D.M. – Lo scopo di Milo Film è quello di produrre cinema, in tutte le sue forme e in tutti i suoi generi, come oggetto sociale. Sicuramente sarà strumento di varie lotte: possiamo già dire che in produzione abbiamo un cortometraggio sulla polemica legata all’Ilva di Taranto, per la regia di Mounir Derbal e dal respiro internazionale e più ampio, e stiamo valutando un altro paio di progetti che indagano la violenza di genere in tutte le sue forme.
Da dove arriva Sotto La Città?
V.T. – Sotto La Città arriva perché Domenico, che già conoscevo – ma in maniera non approfondita – mi aveva chiesto di leggere alcuni suoi progetti, tra cui il monologo omonimo. A me era piaciuto subito un altro lavoro, un lungometraggio; il monologo è stato l’ultimo che ho considerato, perché mi chiedevo come potessi usarlo, e l’ho letto un po’ a tempo perso. C’era una scena in quel testo, era quella che a Domenico piaceva di meno e che a me piaceva di più: l’ho chiamato in ufficio e gli ho proposto di trarne un corto, scrivendone soggetto e sceneggiatura. Nel giro di tre giorni erano pronti, perché Domenico è una “macchina da guerra”. Quindi Sotto La Città è nato da un incontro.
Come si è passati da monologo a sceneggiatura?
Domenico Tiburzi – Questo dettaglio ancora non l’ho raccontato. Circa otto anni fa mi esibivo con una serie di monologhi, spesso di varietà: uno di essi parlava di un ragazzo morto nel terremoto de L’Aquila. Successivamente ci fu il centenario del sisma di Avezzano del 1915 e cominciai a pensare a un monologo per commemorare l’evento: mi venne l’idea di creare un personaggio, Tito, che rimane sottoterra per tanto tempo, quasi per un incantesimo, aggiungendo così un tocco fantastico, che peraltro normalmente non sarebbe il mio genere. Dopodiché ho iniziato a studiare per scrivere per il cinema, e infatti dal monologo, che ho interpretato due volte a teatro, ho tratto anche un soggetto per un lungometraggio che sto ancora promuovendo, Radici. Prima di arrivare a Radici ho estrapolato il corto, che viene dalla scena di cui parlava Valeria, quella che a me piaceva di meno perché era l’unica in cui c’era un riferimento a qualcosa di attuale, l’unico momento in cui il protagonista, sottoterra da cento anni, può avere un riscontro dalla realtà contemporanea. Per me era molto più poetico che rimanesse sempre solo, invece l’incontro con l’altro personaggio risulta molto più crudo – e anche nel corto sarà così: sono due uomini appartenenti a epoche diverse, uniti dallo stesso evento a distanza di anni, che comunicano l’un con l’altro in maniera reciprocamente inaspettata. Nel monologo scoprono anche eredità e riferimenti familiari comuni, come capita spesso nel nostro patrimonio culturale, ma nel corto questo non è stato mantenuto. Il monologo infatti funge solo da spunto di partenza, resta il giovane intrappolato sottoterra, ma nella trasposizione troviamo un personaggio rinnovato, meno “teatrale”: quando scrivi per il cinema devi scrivere per immagini, potenzialmente perdendo il racconto per digressioni che invece avevo pensato per il monologo a teatro.
A proposito di linguaggio, mutatis mutandis, il monologo ci ha ricordato a tratti La Vita Agra di Bianciardi. Nel cortometraggio sarà mantenuto l’uso dell’italiano come lingua? Perché non è stato invece usato il dialetto locale?
D.T. – Non ho usato il dialetto per il monologo perché altrimenti la comprensione sarebbe stata limitata a poche persone. Purtroppo si tende a far diventare amatoriale ciò che è dialettale; magari non il romano e i dialetti più importanti, però nelle province spesso si confonde il dialetto con il non professionale, e non volevo che Sotto La Città fosse etichettata come una commedia solo per noi Abruzzesi, ma che diventasse qualcosa di più universale. Nel cortometraggio, invece, il linguaggio può essere reso anche con un accento: è scritto anch’esso in italiano, ma stiamo valutando di introdurre il dialetto, perché con mezzo e stile diversi è possibile. Avendo a disposizione attori di valore possiamo permetterci di rischiare, perché se non è fatto bene si finisce per abbassare la qualità del prodotto o restringerne l’accessibilità.
V.T. – Inoltre, lo scopo del corto, a parte questo pregiudizio che si trascina il dialetto, era arrivare a più città, più situazioni, perché comunque il sisma non riguarda solo l’Abruzzo: siamo una terra obiettivamente sensibile, ma ci sono altre realtà che lo vivono. Lo scopo era cercare di non focalizzare tutto sull’Abruzzo, Avezzano e L’Aquila, ma abbracciare più realtà possibili. Quasi un gesto di solidarietà totale verso tante esperienze anche al di fuori dell’Italia.
Domenico, hai dichiarato di aver tratto spunto per il tuo protagonista dai “cafoni” del Fontamara di Ignazio Silone. Ce ne parli?
D.T. – A Fontamara ho lavorato recentemente a teatro, interpretando Berardo, che non a caso è anche il nome dell’altro personaggio di Sotto La Città. Direi che l’atmosfera del corto è paragonabile a quella di Fontamara e di Cristo Si è Fermato a Eboli a livello cinematografico. Il contesto è proprio la cultura agraria abruzzese dell’entroterra; dal punto di vista dei personaggi, invece, direi che Tito e Berardo sono più attuali, e al contrario del monologo, nel corto ci saranno riferimenti alla vita contadina solo a livello puramente visivo, anche se il protagonista si porta dietro il suo patrimonio culturale che è immutato. Quindi sicuramente c’è stata ispirazione, anche perché sono molto appassionato di Silone e del suo linguaggio molto semplice ma al contempo profondo. Dal punto di vista linguistico, non ho uno stile per letterati: è uno stile che credo arrivi a tutti e si renda accessibile, e per me è molto importante.
Per tutti e tre: che cosa significa personalmente questo progetto?
V.T. – Una premessa: il lavoro del produttore implica una certa empatia, che però dovrebbe arrestarsi a un certo punto, quando capisci di non stare più lavorando, ma andando oltre. In questo progetto non riesco a farlo, perché è diventato un pezzo di cuore a tutti gli effetti: lo difendo con le unghie e con i denti e faccio attenzione a come se ne parla. Io sono una di quelli che hanno criticato la nostra terra e sono andati via, per poi rendersi conto di quanto avevamo lasciato a casa e ritornare. Ritengo innanzitutto che Sotto La Città serva a dimostrare che anche dalla periferia possano nascere grandi cose. Inoltre racconta una storia – con Domenico ne abbiamo parlato fin dal primo incontro – che i bambini di Avezzano di 4-5 anni, sanno comunque di avere alle spalle, pur non sapendo che cosa sia un terremoto; è una situazione stranissima, che uno porta con sé nel proprio patrimonio di vita. Per cui l’obiettivo è anche mostrare quanto senso di appartenenza ci sia, rispetto a questo argomento, a chi sta fuori e non è abituato a vivere una scossa ogni tre mesi, come magari capita a noi. Ribadisco che secondo me Domenico ha doti di scrittura eccezionali, e da tutto questo è nato qualcosa di particolare che è difficile descrivere in toto. Ma lo scopo fondamentale era portare la nostra storia agli altri.
F.D.M. – Per me la situazione è leggermente diversa, perché a me che non sono abruzzese, questa memoria chiaramente manca, anche proprio a livello fisico. La cosa però che mi ricordo è che anche per noi a Tivoli il terremoto de L’Aquila nel 2009 fu un evento straordinario: non essendo abituati, improvvisamente ci è arrivata questa scossa anche psicologica che ci ha colti di sorpresa. Quindi io parto dall’obiettivo di raccontare storie che possano in qualche modo, non dico insegnare, ma lasciare qualcosa: dal lavoro che ho svolto fino adesso. Per me, lasciare qualcosa, è lo scopo fondamentale. Questo tipo di progetti, fatti da persone che hanno vissuto e vivono questa cosa sulla loro pelle, la scrittura fortissima, perfino la scelta degli attori, possono fare la differenza, e quindi secondo me l’obiettivo è veramente centrato. È una scelta potente ed è una cosa che in realtà accomuna l’Italia intera: è una parte della nostra Storia che abbiamo vissuto tutti, e che va raccontata.
V.T. – Aggiungo che uno degli scopi fondamentali di questo progetto era non drammatizzare l’evento. Perché noi veniamo da un rapporto viscerale con la città de L’Aquila che è a meno di 30 km e che ha trasformato nel bene e nel male questo evento. È giusto ricordare certe cose – io sono la prima ad aver perso amici nel terremoto del 2009, per cui non ne parlo con una leggerezza infinita – però te ne fai una ragione perché è un evento naturale; invece c’è sempre questa agonia, quando anche persone di altre regioni mi chiedono di raccontare, che io a volte non capisco. Il lavoro di Domenico, nonostante abbia un retrogusto profondamente amaro, è quello di aggiungere lo spunto fantastico per intenerire la situazione, con un modo di raccontarla scardinando il peso che noi Abruzzesi ci portiamo dietro come regione, a mo’ di bollino.
F.D.M. – È anche un modo per non cadere nel vittimismo: nel racconto ho visto anche un tentativo di comunicazione fra epoche, un filo che si mantiene e ci accomuna con la Storia che abbiamo vissuto, anche se non l’abbiamo mai conosciuta.
D.T. – In realtà io all’inizio avevo pensato il progetto come puntate da mettere sul web, ma poi mi sono accorto che il mezzo non mi apparteneva. Invece con la Milo Film ho avuto la possibilità di raccontare in modo più preciso e accurato e di lasciare qualcosa, non solo per ricordo, ma più per speranza: il monologo è un racconto di speranza, non di compianto. È una storia umana. Tito è la persona più umana, più semplice e più vera che c’è. È proprio la verità che emerge, perché si trova in una situazione in cui non ha bisogno di niente se non ciò che può essere vitale: la necessità di incontrare qualcuno. Nel quotidiano questo è fuori da ogni discussione, riceviamo ogni giorno moltissimi stimoli, e mettiamo da parte alcune necessità vere. Quindi questo è un racconto sulle necessità vere e profonde dell’uomo, soprattutto è una storia che racconta di un uomo, ma come fosse una leggenda: mi piaceva e mi piace l’idea che anche adesso là sotto ci potrebbe essere qualcuno.
V.T. – Nel 1915 morirono circa 30mila persone, e non esistevano i mezzi di registrazione odierni, per cui non escludo del tutto l’idea, che sotto la nostra città ci possa essere ancora qualcuno. Perché ritrovare 30mila persone, in una città rasa al suolo, ridotta completamente a polvere, non è semplice. C’è una leggenda che dice che ogni cento anni una città colpita dal terremoto rischia con grande probabilità di subire un sisma catastrofico quasi quanto il precedente. Fortunatamente questo ancora non ci è accaduto, anche se quest’anno abbiamo avuto il nostro spavento… e avevo appena accettato il progetto! Io ho un bambino, e mio figlio conoscerà benissimo la storia della sua terra quando avrà 4-5 anni, e mi piacerebbe potergli raccontare anche la favola positiva che là sotto ci sia qualcuno che in qualche modo ci protegga da futuri pericoli.
Una favola “attiva”, nel senso che non parla di una città che solamente subisce…
V.T. – No, gli Abruzzesi “forti e gentili” si rialzano sempre.
D.T. – L’idea era proprio quella di ricreare memoria. La storia della città si è spezzata col terremoto, sappiamo veramente pochissimo dell’Avezzano di prima del 1915. Volevo raccontare questa storia proprio per fornire una sorta di documento: Tito è lì perché è l’unico che può e deve narrare ciò che è accaduto prima di lui. Però non viene trovato: deve restare lì quasi a dare sicurezza; a volte la Storia non la conosciamo benissimo, ma sappiamo che c’è. All’inizio aggiungere quei momenti di narrazione fantastica mi sembrava facesse perdere di credibilità, ma poi mi sono reso conto che si tratta solo di un pretesto per tramandare la storia sdrammatizzando.
V.T. – È anche profondamente straniante, perché il corto – che forse noi visualizziamo in maniera molto tecnica – inizia con una scossa che non si vede ma si sente, e con una battuta di Tito, il personaggio di Lino Guanciale, che dà una vaga indicazione del contesto. Però da pubblico impegnato a osservare la messa in scena non ci si fa molto caso, si prende solo coscienza che c’è stato un terremoto e che due persone sono sotto le macerie, e parlano fra loro divise da un muro. È solo alla fine che si capirà qualcosa in più dei due personaggi, perché gli indizi prima sono pochi e fraintendibili.
D.T. – È una storia che riporta chiunque abbia vissuto traumi o esperienze drammatiche, anche non un terremoto, a quei momenti di difficoltà, ma con una dolce crudezza, sempre con la consolazione e la speranza della presenza del personaggio che resta sotto a proteggere.
In base a che cosa sono state attuate le scelte di casting, i già annunciati Lino Guanciale e Andrea Venditti?
F.D.M. – Chiaramente serviva una figura che dal punto di vista attoriale non lasciasse scampo: un attore bravo, preciso, ma soprattutto secondo me il punto di forza di Lino è che sia una persona estremamente rispettabile, una bella persona, e un uomo che ha nel suo DNA una parte di quella Storia. Parte che andrà ampliata con Andrea Venditti, che non essendo marsicano non ha tutto questo background storico/emotivo/esperienziale; infatti sta già compiendo un lavoro di ricerca di sensazioni dei luoghi, non solo a livello linguistico, ma anche di esperienza di vita.
D.T. – Questione di cultura diversa. Con Venditti abbiamo parlato di ritualità, ad esempio della cosiddetta “cerimonia del maiale”, che ho anche incluso nel monologo. Con essa volevo rappresentare la portata delle tradizioni, che adesso magari ci sembrano assurde, ma servono a bagaglio culturale di una particolare regione. Tito porta con sé categorie e ritualità specifiche.
V.T. – Per quanto riguarda Lino Guanciale, l’abbiamo contattato e lui si è dimostrato estremamente disponibile e professionale; come sappiamo è all’apice del suo momento, però è stato molto rispettoso, ha impiegato sole due settimane per darci conferma. Ha letto il soggetto, e già gli interessava. Dopo aver visto la sceneggiatura se n’è innamorato e ha fatto di tutto per trovare il tempo materiale di incastrare il progetto. Dopo il suo assenso siamo partiti ufficialmente. Come diceva Federica, ho proposto Lino perché si trattava di un nostro conterraneo, che quella storia già la conosceva; inoltre cercando un attore della sua portata, con quella mole di impegni, serviva che fosse già così dentro il personaggio da dover praticamente solo imparare la parte, senza necessità di dispendio di tempo in ricerca e preparazione ulteriore.
D.T. – Era la scelta giusta sia professionalmente, per la sua bravura, ma anche per una predisposizione naturale. Per quanto tu possa lavorare su un personaggio a livello culturale, dialettale, soprattutto per i corti, non potrai mai eguagliare chi in un determinato luogo ci è nato e vissuto. Con Andrea Venditti stiamo invece parlando di questa preparazione, e mi sembra altamente motivato e molto preso dal progetto, cosa che gli renderà più semplice una prova obiettivamente complicata per un non abruzzese, appunto.
V.T. – Per quanto riguarda invece l’interprete del terzo personaggio, la moglie di Tito, stiamo ancora valutando. Abbiamo diverse idee, e non possiamo ancora divulgarle perché ci sono da capire alcune dinamiche; sappiamo che sarà un’unica scena in flashback, che rimanderà al tempo prima dell’evento sismico…
Parlando di attualità, abbiamo menzionato l’Abruzzo e il sisma. Dieci anni fa e oggi: vi sentite di dare un vostro parere su come sia la situazione?
V.T. – Da fare c’è sempre. Per certi versi L’Aquila ha smesso di vivere dal 6 aprile 2009: non è la città di quando ero bambina, non è la città storica di prima. È una città che si regge sui ricordi, ma che obiettivamente è stata aiutata moltissimo, magari al contrario di altre realtà che sono state considerate molto meno per interessi mediatici e politici differenti.
D.T. – Il terremoto de L’Aquila, a differenza per esempio di quello dell’Emilia, ha sancito che cosa significhi vivere un sisma. Quando c’è stato il terremoto di Avezzano, anche per una questione di possibilità economiche, non si poteva pensare di ricostruire una città con mezzi antisismici; quando è capitato a L’Aquila abbiamo capito che è una caratteristica della nostra terra, di tutta l’Italia. Se comprendi che ci devi convivere, impari a prepararti agli eventi che possono verificarsi.
V.T. – Nonostante ci avessero detto che la sicurezza era garantita… fino alla sera stessa. Questo, purtroppo, fa parte di un discorso che accomuna ogni latitudine d’Italia.
D.T. – Il terremoto è un fenomeno che mette molta paura. Se sei su un territorio a rischio, prepararsi significa eliminare la paura anche nel vivere quotidiano. Nel momento in cui costruisci una casa a norma, ristrutturi, ti prepari a quell’evento, sai come comportarti, e hai più possibilità sia di vivere meglio la circostanza in sé che di evitare tragedie.
V.T. – Diciamo anche che una questione puramente geologica fa la differenza. L’Aquila appartiene a una faglia su cui l’evento sismico importante è quasi sempre preceduto da uno sciame sismico; invece Avezzano è su una faglia detta “silente”, che non dà preavviso, per cui quando sentiamo una scossa non sappiamo mai se sarà breve o proprio quella importante. Quando è successo qualche mese fa con epicentro Collelongo, si è sentito un boato incredibile, e ancor prima che la terra cominciasse a tremare mi chiedevo «che fare?», perché non potevo prevedere quale sarebbe stata l’entità. Ne parlavo con Domenico da subito: noi sembriamo sempre i cinici della situazione, ma quando ci troviamo nei locali piccoli, mezzi sotterranei, la prima cosa a cui pensiamo è che se dovesse verificarsi una scossa rimarremmo probabilmente bloccati sotto, e la gente non è abituata a questo. Devi convincerla che sia una riflessione autentica di chi, come noi, invece lo è.
D.T. – Dicono sempre “ma qui il terremoto non c’arriva!”
Qual è la percezione di chi l’ha vissuto dello sciacallaggio mediatico/politico? Può lo strumento artistico del cinema o della scrittura riappropriarsi di contenuti altrimenti strumentalizzati?
V.T. – Credo che l’arte abbia un ruolo fondamentale; è un mezzo principe per dire qualcosa. Il cinema è un mezzo importante. Hai 15 minuti, nel nostro caso, per raccontare una storia. Per quanto riguarda lo sciacallaggio politico, ci sono scuole di pensiero. Nel caso de L’Aquila, se ne sono presi cura talmente tanto che obiettivamente almeno in un primo momento l’hanno trasformato in qualcosa di positivo. Nonostante l’elevato numero di vittime, la città è ripartita anche grazie a tutta quell’attenzione.
D.T. – Chi ha letto il monologo sa che non ci sono riferimenti strettamente geografici o politici di alcun genere, ed è anzi arricchito da filastrocche e canzoni volutamente nazional-popolari e verosimilmente comuni a più che una sola regione. È una storia che va aldilà della geografia e delle contese. Il corto è stato pensato proprio con questa idea: ci sono accenni, ma è il racconto di una storia umana, che appartiene e deve appartenere a tutti.
Siete una casa di produzione indipendente. Sorge spontanea la domanda off-topic sulla diatriba tra produzione classica e piattaforme streaming.
V.T. – Ho scritto recentemente un pezzo per l’edizione cartacea di Opere Prime proprio su questo argomento. È una questione enorme. Io sono favorevole all’esistenza di Netflix, per citare la piattaforma più importante: in Italia siamo indietro anni luce rispetto anche solo all’Europa, e non considerando gli USA, che hanno un mercato a parte. Noi ancora doppiamo i film, non riusciamo a guardarli in originale; per carità, siamo gli unici doppiatori decenti al mondo, però ad esempio guardare un film come Roma di Cuaròn in lingua originale è un’altra esperienza. Detto questo, i canali di produzione Netflix in Italia sono chiusi. Noi abbiamo avuto l’onore di avere come insegnante al corso di produzione della Renoir Olivia Musini, proprietaria di Cinema 11, che ha vinto il David di Donatello per Sulla Mia Pelle; quello è stato un film prodotto da Cinema 11 e solo distribuito da Netflix, quindi per la distribuzione le cose sono più fattibili. In Italia per far entrare Netflix nella produzione si ha proprio un problema di contatti, il meccanismo non funziona, e questo è un peccato. Gli esercenti un po’ li capisco, perché il cinema nasce come esperienza di condivisione in sala, e tale deve rimanere; però bisogna prender coscienza che i tempi avanzano ed esiste anche lo streaming. Se tutti gli esercenti riuscissero a distribuire qualche prodotto Netflix valido, ci sarebbe uno scambio continuo, invece sembra che si riesca solo a far polemica. Hanno aperto una base di produzione con sede a Madrid che però opera su tutta l’Europa ed è ancora più grande di Hollywood, ma noi ancora non riusciamo a capire quanto sia forte questa spinta. E pensare che sono partiti dal noleggio! In Italia esiste anche l’enorme problema della censura: speriamo che con la nuova legge Franceschini, dato che il disegno lo prevede, possiamo iniziare ad aprirci a una situazione di maggiore libertà.
Per concludere, e senza peccare di spoiler, ci date un’interpretazione del finale del corto e un’indicazione di quale sperate sia il destino del progetto?
D.T. – Eduardo De Filippo nel prologo de L’Arte della Commedia dice che ognuno vive una commedia o un dramma in base allo stato emotivo, al proprio vissuto. Quindi ognuno lo vivrà e vedrà secondo la sua esperienza: come dicevo, se uno ha vissuto un altro tipo di tragedia, ci rivivrà la sua tragedia, perché la propria esperienza prevale sempre su qualcosa di immaginario e di esterno. Per quanto riguarda la trama, chissà…
V.T. – Lo scopo finale del progetto invece è quello di chiudere una distribuzione, e anche in questo caso abbiamo più strade possibili; inoltre vorremmo organizzare sale d’essai con eventi annessi – anche se portare i corti in sala è sempre difficile, siamo fiduciosi perché crediamo nella forza di questa storia. Per necessità logistiche, di fotografia, attori e produzione, contiamo di girare il cortometraggio entro novembre di quest’anno e averlo pronto per febbraio 2020, quindi concorrere per le selezioni di Cannes, Venezia e David di Donatello. In base a come andrà, e oltre a questi canali, ci inseriremo nel circuito infinito di festival e selezioni esistenti, non ultimo quello degli Oscar, per cui abbiamo visto esserci più possibilità di quanto si creda. Per cominciare, comunque, puntiamo a dare l’esclusiva a uno dei festival maggiori. Ecco, se fosse Cannes non sarebbe proprio male…
Il già citato Eduardo direbbe che “essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male”. Noi ignoriamo il monito e ci auguriamo che ci sia presto champagne per tutti!
Sotto La Città – 1915 è di nuovo in crowdfunding per la post-produzione qui.