Parla di felicità, libertà, sogni e lavora viaggiando. Gianluca Gotto vive il suo sogno giorno per giorno, da quando ha deciso di lasciare le radici torinesi, l’idea del posto fisso e del prestigio per girare il mondo.
“Ci dicono che per essere felici dobbiamo avere un lavoro prestigioso, un’automobile costosa e una casa grande. – scrive nel suo blog Mangia Vivi Viaggia – Ci dicono che i soldi non sono mai abbastanza, che ne dovremmo volere sempre di più. Ci insegnano a giudicare gli altri in base alle etichette: che lavoro fa? Quanto guadagna? Quanti anni ha? Ha figli? Mai una volta che ti giudichino in base a quante volte sorridi durante una giornata”.
Lui, che “a una vita di grandi apparenze”, ha preferito “una vita di grandi libertà”, non poteva che essere il nostro prossimo intervistato…
Chi è Gianluca? Autopresentati…
«Potrei dire di chiamarmi Gianluca Gotto, avere 28 anni ed essere nato a Torino, ma tutto questo cosa direbbe davvero di me? Niente. Il nome non lo scegliamo, l’età è solo un numero (di cui spesso siamo schiavi) e la città in cui siamo nati non è altro che un luogo attraverso cui le persone ci etichettano.
Mi piace rispondere alla domanda “chi sei?” dicendo qualcosa che mi rappresenti realmente. Sono una persona che ama leggere, viaggiare, ascoltare la musica, esplorare le alternative e conoscere persone straordinarie. Credo fortemente nella condivisione e nell’amore, in tutte le sue forme. Ho un lavoro particolare (scrivo articoli per siti web) che mi permette di avere un’esistenza libera, nella quale posso scegliere come gestire il mio tempo e il mio spazio. Lavorando in remoto, infatti, mi mantengo mentre giro il mondo a tempo indeterminato».
Chi eri prima di iniziare una vita in giro per il mondo?
«Ero un ventenne insicuro, confuso e triste, che faceva finta che tutto andasse alla grande. Ogni giorno indossavo una corazza che mi facesse sembrare sicuro di me e anche un po’ arrogante, poi montavo un bel sorriso falso e uscivo di casa per andare all’università. Molto presto questa fragile struttura di apparenze e superficialità si ruppe e oggi sono grato a me stesso di aver trovato la forza di mettere in discussione tutto, partire, viaggiare, rischiare, fallire e imparare dai miei errori».
Cosa ti ha dato la spinta definitiva per lasciare tutto e partire?
«La sensazione di essere una comparsa nella storia della mia vita. Non ero il protagonista, perché non sceglievo niente con consapevolezza ma accettavo tutto passivamente. È “giusto” comportarsi in un certo modo perché lo fanno tutti, da sempre? Allora lo facevo anche io. Ma così avrei davvero vissuto? O avrei recitato una parte? Ricordo che spesso mi venivano in mente le parole di una splendida canzone di Samuele Bersani: “Sei solo la copia di mille riassunti”.
Ecco, io volevo essere il protagonista di una storia epica e meravigliosa: quella della mia vita. Così decisi di prendere in mano la penna e iniziare a scriverla personalmente, senza le linee guida di nessuno. Ho lasciato l’università, ho prenotato un biglietto di sola andata per Perth (Australia) e sono partito, con le idee confuse e l’unico obiettivo di scoprire un po’ il mondo e scoprire me stesso».
Hai avuto paura di lasciare una vita sicura?
«Su questo aspetto devo essere molto sincero: non sono una di quelle persone che cambiano vita a quarant’anni dopo aver comprato la casa con il mutuo, aver messo su famiglia e aver dedicato più di un decennio a costruirsi una carriera. Mi riconosco soprattutto un pregio: essere stato molto lungimirante. Non ero felice della mia vita a vent’anni ma sapevo che proseguendo su quella strada sarei stato profondamente infelice in futuro.
Quindi ho deciso di rischiare, ma devo dire in tutta onestà che farlo a vent’anni non è così difficile. Non fa così tanta paura, hai un certo margine di errore. Inoltre mi sono sempre dato molto da fare dal punto di vista lavorativo: in Australia e in Canada ho svolto tanti lavori, spesso molto diversi tra di loro, e mi sono sempre mantenuto da solo. Quando sei organizzato e ti dai da fare, la paura ha un ruolo marginale».
Nel tuo blog consigli di non farci definire dal nostro lavoro e di farci chiedere, piuttosto, se siamo felici… allora, cos’è la felicità?
«La felicità ha coordinate diverse per ognuno di noi, non c’è una ricetta universale e quello che io considero “felicità” sicuramente non è giusto a priori. Conosco persone che odierebbero fare la mia vita, perché non sono portate per stare al pc e amano vivere nel luogo in cui vivono da sempre. Per me la felicità è come una fiamma che abbiamo dentro e che solo noi possiamo accendere. Niente e nessuno che si trovi fuori da noi può farlo. I fattori esterni (persone, situazioni, cose) possono alimentare quella fiamma oppure contribuire a farla spegnere. Ma siamo noi a decidere se prendercene cura. Dipende da noi. Siamo noi a scegliere se essere felici oppure no.
Su un piano più pratico, per me la felicità è strettamente legata alla libertà. Sei libero quando scegli di fare ciò che fai ogni giorno e scegli di farlo con il sorriso sul volto. Se hai fatto tua questa forma di libertà, hai anche raggiunto uno stato emotivo che definirei sicuramente “felicità”».
Hai una vita in movimento, di continua scoperta e infiniti incontri ma… ti senti mai solo?
«Non mi sento solo perché ho al mio fianco la persona migliore che conosca, la mia compagna di vita e di viaggio, Claudia. Più della solitudine, spesso sento l’isolamento, specialmente quando torno a Torino. Passare da Bali (o dall’Asia in generale) a Torino mi dà spesso questa sensazione, perché alle nostre latitudini non esiste più alcun senso di comunità.
Le persone sono isole in un mare di isole: si vedono, si rendono conto della presenza degli altri, ma non c’è nessuna condivisione, non c’è un reale contatto, né tanto meno uno scambio. La nostra società è basata sull’ego e sull’egoismo, alimentata com’è da competitività e materialismo. Mi sono innamorato dell’Asia perché a Oriente trovo sempre qualcuno con cui interagire e sentirmi parte di questa cosa bellissima che si chiama umanità».
Hai mai paura del futuro, quando sarai anziano? Pensi di trovare un posto definitivo quando non sarai più in grado di spostarti facilmente? Oppure vivere nel “qui e ora”, come consigli nel tuo blog, significa anche non pensare completamente a questo aspetto?
«Vivere nel “qui e ora” non significa fregarsene del futuro, ma accettare che quel futuro potrebbe non arrivare mai e l’unica certezza che abbiamo è il momento presente. Nel mio “qui e ora” scrivo queste risposte, nel tuo “qui e ora” le leggi. Ci penso al futuro, ma non ne ho assolutamente paura. Anzi, mi piace l’idea di lavorare oggi per stare bene domani.
È un gesto di amore verso me stesso e verso chi mi sta intorno. Sulla questione dei dubbi tra stanzialità e nomadismo, io in realtà già oggi ho dei punti fermi della mia vita, delle “basi”, come le chiamo. Bali è una di queste, ma anche la meno esotica (eppure estremamente piacevole, almeno per me) Timisoara. E credo che questa sia la prospettiva a cui aspirano molte persone che sognano una vita da nomade digitale: trascorrere 6 mesi in un luogo che chiamano casa e 6 mesi in viaggio».
Cosa consigli a chi vorrebbe fare la tua stessa vita ma ha paura di “prendere il volo”?
«Consiglio di sfruttare la paura a proprio favore. Ti fa paura l’idea di cambiare completamente la tua vita, partire, prendere dei rischi e forse fallire? Cambia prospettiva: quanto ti fa paura l’idea di ritrovarti tra dieci a vivere la stessa identica vita che hai ora? Immagina i tuoi prossimi dieci anni uguali al tuo ultimo anno. Come ti fa sentire questo scenario? Se sei una persona realmente interessata a cambiare vita, la seconda paura è certamente più forte della prima. Sarà questa la tua spinta più forte verso il cambiamento drastico ma necessario».
E a chi non se la sente di partire per non lasciare i propri familiari?
«Se il problema è la paura di deludere i propri famigliari, c’è una grande lezione che ho imparato: chi ti vuole bene ti vuole felice. Che tu sia vicino o dall’altra parte del mondo. Chi ti vuole bene solo quando gli sei vicino, anche se ciò comporta vivere in un luogo che ti rende infelice, ha a cuore solo ed esclusivamente la sua felicità. I famigliari potrebbero non capirti all’inizio ma quando si renderanno conto che partire significa stare meglio, diventeranno i tuoi primi sostenitori. E se non sarà così, significa che non ti amano davvero».
Ci racconti l’episodio più singolare che hai vissuto grazie ai tuoi continui viaggi? E il più “avventuroso”? Se c’è…
«Il più singolare e divertente è quello che racconto nel capitolo “Sesso in ostello” del mio libro: un ragazzo e una ragazza completamente ubriachi si sono buttati sul letto dove dormivo nel tentativo di passare una notte infuocata, e io, per non svegliare tutto l’ostello, li ho dolcemente fatti cadere dal letto spingendoli con una gamba. Quando sono piombati per terra ho controllato che non si fossero fatti male e mi sono reso conto che non si erano accorti di nulla. Si sono spostati su un lettino libero e un minuto dopo li sentivo russare profondamente.
Il più avventuroso? Attraversare il Vietnam in moto, ma probabilmente ancora di più fare il Col di Tenda (strada di montagna al confine tra Italia e Francia) con il camper che improvvisamente non frena: la strada è praticamente verticale, sei in discesa, a pochi metri c’è il dirupo e quando premi il pedale del freno senti “ferro contro ferro”. In quei momenti impari ad amare la vita».
Hai scritto il libro “Le coordinate della felicità”, perché dovremmo leggerlo?
«Perché racconta un percorso di vita alternativo ai soliti, offre punti di vista diversi e può aiutare il lettore a porsi domande che non aveva mai nemmeno preso in considerazione. Perché è un libro di viaggi, ma soprattutto un libro di vita. Perché se a volte ti senti isolato nel tuo essere diverso dai canoni di questa società, leggere questo libro ti farà sentire meno solo. E se hai dei sogni che tutti intorno a te etichettano come irrealizzabili, questo libro ti dimostrerà che niente è impossibile. Perché se sei una persona che non si accontenta facilmente, leggere questa storia ti darà il coraggio di cambiare radicalmente vita, prenotare un biglietto di sola andata e salutare tutti».
Cosa pensi dei confini e delle chiusure nazionali?
«Per diversi anni della mia vita ho sofferto molto per quella che tutt’ora considero un’ingiustizia: l’impossibilità di trasferirti a vivere in una nazione per cui saresti pronto a dare tutto te stesso. La mia permanenza in Australia si dovette fermare a causa della fine del visto; un’emergenza famigliare mi costrinse a lasciare il Canada e quando ero pronto a ritornarci il visto era ormai scaduto.
Io credo che il mondo debba avere sempre dei confini, ma puramente culturali. Le linee disegnate su una mappa sono un’invenzione, mentre la cultura di un luogo no. Non è la tua carta d’identità a dire che sei italiano, ma il tuo modo di vivere e pensare. Mi piace dire che dall’altra parte del mondo c’è un italiano che non sa di esserlo e a un metro da me c’è un italiano che non sa di essere in realtà un australiano.
È assurdo che al giorno d’oggi la burocrazia impedisca a certe persone di vivere in un luogo dove potrebbero fare la differenza e apportare valore, solo perché non soddisfano requisiti puramente economici. In Australia vedevo ragazzi e ragazze costretti a tornare a casa nonostante fossero un tutt’uno con lo stile di vita australiano, mentre ricchi rampolli di altre nazioni potevano restare nel paese perché avevano la possibilità di “comprare la residenza“, nonostante non avessero assolutamente nulla in comune con la cultura del luogo e non avessero alcuna intenzione di sposarla.
Di fronte all’ingiustizia e all’assurdità di certi confini puramente mentali, mi sono reso conto che l’unica soluzione è trovare una soluzione alternativa. Come scrivo nel mio libro, in questa società occidentale una persona libera è chi riesce ad aggirare regole ingiuste senza infrangerle. Io ci sono riuscito diventando un nomade digitale: lavorando in remoto, posso lavorare da qualsiasi punto del pianeta, senza curarmi di avere un visto lavorativo. Essere un nomade digitale è una sorta di ribellione alla mentalità che ci vuole divisi da confini immaginari».
Cos’è la società?
«La società occidentale? È l’esaltazione dell’individuo attraverso la grande illusione della competitività, quella che ci fa credere che essere primi significhi essere migliori e ci convince che nulla sia mai abbastanza. Non avrai mai abbastanza amici, abbastanza soldi, abbastanza oggetti, una fidanzata abbastanza bella, una casa abbastanza grande e una macchina abbastanza potente. Corri, corri e corri su quella ruota del criceto, senza muoverti di un metro dove conta davvero: dentro, nel mondo meraviglioso dell’introspezione, ma anche fuori, nell’interazione con altri esseri umani, nelle grandi imprese collettive, nella concretizzazione dei propri ideali.
Cosa dovrebbe essere per me la società? Una sola cosa: unione. Che non significa vicinanza ed efficienza nei rapporti personali, ma comunità. Una buona società è quella in cui le persone si sentono parte di qualcosa di grande, si sentono un ingranaggio importante (ma non insostituibile, quella è la trappola dell’ego) di un meccanismo bellissimo. Purtroppo oggi in Occidente non abbiamo società di questo tipo».
Cos’è per te la vita?
«La vita è a tutti gli effetti un viaggio di cui conosci la partenza ma non la destinazione. E la cosa bella è che non conta nulla la destinazione, né tanto meno la partenza: conta tutto ciò che si trova in mezzo. Come ogni vero viaggio».
La tua canzone preferita?
«Amo la musica, credo sia una delle massime espressioni delle mille sfumature della vita. Per questo mi è davvero impossibile trovarne solo una. Posso dire che tre delle mie canzoni preferite sono: “Don’t Follow” degli Alice In Chains, “Spirit Bird” di Javier Rudd e “Dumb” dei Nirvana. E anche una italiana, altrimenti mio padre si arrabbia: “Fango” di Jovanotti».