Oggi, 22 aprile 2020, ricorre il cinquantesimo anniversario della Giornata della Terra. Istituita nel 1970, la Giornata della Terra fu uno dei primi passi importanti per l’allora emergente movimento ambientalista e, ad oggi, costituisce l’occasione per riflettere sullo stato di salute del nostro pianeta, sulle misure adottate per preservarne la vita e sul nostro impegno in favore dell’ambiente.
Questo cinquantesimo anniversario arriva in una situazione particolare, nel bel mezzo di un’emergenza sanitaria globale che nel prossimo periodo avrà delle conseguenze importanti anche sul fronte ambientale. Dalla nostra condizione di lockdown forzato, tutti noi abbiamo assistito con meraviglia a scene del tutto inaspettate: animali che si avventurano nelle città, sulle strade o in aree precedentemente occupate dall’uomo, fiumi e canali che tornano limpidi in tempi sorprendenti, una significativa diminuzione dell’inquinamento atmosferico e, in generale, ci siamo trovati di fronte alla dimostrazione che, se gliene viene data la possibilità, il nostro pianeta può rigenerarsi in tempi estremamente brevi, attraverso una capacità di recupero stupefacente. Guardiamo agli aspetti positivi e ne gioiamo. Abbiamo un disperato bisogno di buone notizie e tendiamo a tirare un sospiro di sollievo quando ne incontriamo.
Tuttavia, questo non è il momento di abbassare la guardia. Ora che la nostra attenzione è inevitabilmente rivolta all’emergenza sanitaria globale, ci troviamo di fronte al rischio che la situazione venga utilizzata come un pretesto per fare dei passi indietro. A questo riguardo, è doveroso menzionare la situazione ungherese e quella polacca inerente ai diritti delle donne, chiari esempi di questa realtà.
Quando si parla di ambiente, della salute del pianeta e degli esseri viventi che lo abitano è necessario guardare al quadro generale e tenere a mente che le bellissime notizie di questi giorni sono gli effetti temporanei di misure di emergenza molto drastiche che, ovviamente, non manterremo una volta fuori pericolo. La crisi climatica non è cessata, siamo ancora nel bel mezzo della sesta estinzione di massa e non è una buona idea perdere il senso d’urgenza di cui tutti avevamo faticosamente preso piena coscienza, soprattutto nell’ultimo periodo.
Alla luce dei nuovi eventi, è importante riflettere in modo approfondito su alcune questioni che, pur emergendo da una situazione di temporanea emergenza, potrebbero finire per determinare conseguenze ambientali negative sul lungo periodo.
Cambiamento climatico: gli effetti della recessione economica
Secondo un rapporto di Bloomberg New Energy Finance nel 2021 gli effetti della recessione economica potrebbero determinare, per la prima volta dagli anni Ottanta, un crollo di investimenti nel settore delle energie rinnovabili. Tali investimenti, infatti, potrebbero essere sottratti all’ambito dell’energia pulita ed essere impiegati per fronteggiare la nuova crisi finanziaria. Negli scorsi giorni, inoltre, la forte diminuzione nella domanda determinata proprio dalla pandemia da coronavirus, ha portato il prezzo del petrolio ai livelli più bassi registrati negli ultimi vent’anni.
In questo contesto, quindi, investire in fonti energetiche ad emissioni zero potrebbe non rivelarsi redditizio nel breve periodo, quando i prezzi del petrolio sono così bassi e la necessità di risanare la crisi finanziaria così pressante. La convergenza di queste due situazioni rende evidente un grave pericolo di regressione nella transizione all’energia pulita che vanificherebbe gli sforzi e gli investimenti degli ultimi anni.
A questo riguardo, però, Fatih Birol, Direttore Esecutivo dell’Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili, invita a usare la situazione a vantaggio dell’ambiente e dell’economia. Secondo le previsioni, infatti, “ogni dollaro speso nella trasformazione energetica si ripaga con tre-otto dollari, per cui puntare sull’energia rinnovabile rappresenta un’opportunità […] per sostenere una ripresa economica sempre più necessaria e urgente in tempi di Covid-19”.
Plastica usa e getta
Negli Stati Uniti spuntano numerose campagne che, approfittando della necessità di adottare misure igieniche molto severe per far fronte al coronavirus, mirano a promuovere l’uso della plastica usa e getta per imballaggi e sacchetti. Le borse riutilizzabili, in particolare, vengono descritte come poco igieniche e come un fattore di rischio nella trasmissione del virus. Per questo motivo, in diversi Stati si parla di bloccare le nuove leggi già in vigore e i disegni di legge per introdurre dei divieti nell’uso dei sacchetti di plastica usa e getta. A promuovere queste campagne sono, ovviamente, i produttori di plastica ed è proprio la Plastic Industry Association a dichiarare che “introdurre simili divieti durante una pandemia è una minaccia per la salute”.
A scanso di equivoci è importante chiarire che sì, effettivamente esiste uno studio che si mostra in favore di tale ipotesi ma che la sua attendibilità è stata messa in dubbio in quanto il lavoro è stato finanziato dall’American Chemistry Council, rappresentante dei principali produttori di materie plastiche statunitensi. Il conflitto di interessi appare evidente e, in ogni caso, tale studio si limitava a raccomandare la pulizia delle borse riutilizzabili dopo l’uso. Quello che sappiamo con certezza è che uno studio dei National Institutes of Health ha confermato che il coronavirus può sopravvivere sulle superfici di plastica fino a tre giorni mentre su materiali come il cartone, la sua sopravvivenza si riduce ad un giorno.
Purtroppo, però, tali campagne stanno ottenendo discreti risultati. Diversi divieti all’uso della plastica usa e getta sono stati posticipati, così come vari lavori su simili disegni di legge e nel Massachussetts è stato temporaneamente vietato l’uso di borse riutilizzabili.
Bracconaggio e coronavirus
È di qualche giorno fa l’allarme lanciato dalla Wildlife Conservation Society secondo la quale con il coronavirus si è registrato un picco globale degli episodi di bracconaggio e delle uccisioni di animali appartenenti a delle specie a rischio di estinzione. In particolare, la WCS riportava la notizia dell’uccisione di tre esemplari di ibis gigante e di cento tantali variopinti in Cambogia. Allo stesso modo, il New York Times ha denunciato l’uccisione di diversi esemplari di rinoceronte bianco in Africa. Anche in India c’è stato un forte aumento delle segnalazioni relative ad attività di bracconaggio contro le tigri.
Analizzando la situazione dei parchi naturali africani BBC News ha osservato che “la preoccupazione è su come queste aree possano mantenere l’efficacia del loro pattugliamento e della sicurezza della fauna selvatica quando circa il cinquanta percento delle entrate previste per quest’anno ora è sceso a zero”. La presenza turistica è infatti, insieme alla legge, un forte elemento di protezione di queste specie nel loro habitat naturale e il suo venire meno apre ai cacciatori nuove possibilità di uccidere esemplari appartenenti a specie a rischio e di rivenderli sul mercato nero, un’opportunità che molti, criminali ma anche persone che hanno perso ogni mezzo di sussistenza, considerano con favore in conseguenza alla nuova crisi economica che sta travolgendo economie già provate da situazioni di forte difficoltà.
Non occorre, tuttavia, guardare ad altri continenti per comprendere la gravità della minaccia alla fauna selvatica posta dall’emergenza coronavirus. Anche nel bergamasco e nella bresciana diverse persone sono state denunciate per l’abbattimento (o il tentato abbattimento) di uccelli e ungulati selvatici tra cui cervi, caprioli e cinghiali. In seguito a questi episodi la Forestale si è vista costretta a rafforzare i controlli per contenere da un lato gli episodi di bracconaggio e dall’altro anche le evidenti violazioni delle norme e delle misure adottate dalla popolazione contro la diffusione del coronavirus.
Queste sono solo alcune delle questioni che l’emergenza coronavirus ha aperto sul fronte ambientale e climatico e le nostre scelte in questi campi, fatte in base ad una situazione momentanea, rischiano di avere pesanti conseguenze a lungo termine sul nostro pianeta e su tutti gli esseri viventi che lo abitano, esseri umani inclusi. Abbiamo tutte le informazioni del caso. Ne siamo consapevoli così come eravamo perfettamente consapevoli del fatto che esisteva una forte eventualità che arrivasse una pandemia. Il rischio di pandemie planetarie è entrato in numerosi studi internazionali ma non è mai entrato nelle politiche economiche globali.
Già nel febbraio 2018 l’OMS aveva ipotizzato l’arrivo di un “disease x” (menzionato nell’Annual Review of Diseases prioritized under the Research and Development Blueprint) descritto da Peter Daszak, membro della stessa commissione, come un virus che avrebbe avuto un tasso di mortalità nettamente superiore a quello della normale influenza ma che sarebbe stato, almeno nella fase iniziale, molto simile e che proprio in virtù di questa somiglianza si sarebbe diffuso in modo rapido ed esteso provocando ingenti danni in ambito economico e finanziario.
Sapevamo che esistevano forti probabilità di trovarci di fronte a un simile scenario ma abbiamo continuato a ignorare la situazione, a negarla, a rimuoverla dai nostri pensieri e a tagliare sulla sanità, con le conseguenze che purtroppo conosciamo. Allo stesso modo, sappiamo benissimo quali saranno le conseguenze di un tracollo della situazione climatica e ambientale. Lo sappiamo da almeno cinquant’anni, tutto il periodo che ci separa dalla prima Giornata della Terra e, allo stesso modo, continuiamo a ignorare il problema, a negarlo, a non pensarci. La differenza è che quest’ultimo scenario può essere migliorato di molto se oggi scegliamo di fare scelte diverse per il nostro pianeta. Abbiamo la preziosa occasione di riflettere sui nostri errori del passato e di trarne vantaggio per il futuro così da non doverci mai trovare di fronte al quadro peggiore, quello che se messo a confronto con la pandemia che oggi sta mettendo in ginocchio il mondo, la fa apparire come un problema marginale.