“21×17 geometria della giustizia”, il documentario diretto da Christian Letruria, che da qualche giorno è visibile a tutti, parte dalla rievocazione della famosa sentenza Torreggiani con la quale il sistema giustizia del nostro Paese è stato messo sotto accusa grazie al ricorso a Strasburgo di pochi detenuti. Le testimonianze di chi c’era danno voce al silenzio di quelle celle e ci mostrano le difficoltà di ribellarsi alle ingiustizie all’interno di un’istituzione totale come il carcere.
Era l’8 gennaio 2013 e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condannava l’Italia ponendo l’attenzione sul sovraffollamento carcerario del nostro Paese, definito espressamente come “problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano”. Eppure sarebbe bastato un foglio di block notes per capirlo. La Corte Europea, con la sentenza pilota sul ricorso di Mino Torreggiani e altre sei persone detenute a Busto Arsizio e Piacenza, ha stabilito che le condizioni di detenzione dei ricorrenti era disumana e degradante: celle minuscole, sovraffollamento, violazione di diritti fondamentali.
È stata ravvisata la violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Quindi tortura. Nei penitenziari italiani erano rinchiusi 66mila detenuti a fronte di 48mila posti di capienza regolamentare.
Persone ammassate con meno di tre metri quadrati di spazio vitale a disposizione per ciascuno. “Eppure non era complessa come operazione matematica” dice Roberta Cossia, magistrato di sorveglianza del tribunale di Milano, in “21×17 geometria della giustizia”. Il documentario diretto da Christian Letruria, che da qualche giorno è visibile a tutti, parte proprio dalla rievocazione della piccola grande storia di denuncia, la famosa sentenza Torreggiani, con la quale il sistema giustizia del nostro Paese è stato messo sotto accusa grazie al ricorso a Strasburgo di pochi detenuti.
Una ricerca di Oriana Blinik, con Roberto Cornelli e Annalisa Zamburlini, che ha raccolto le testimonianze di chi c’era. Parole che danno voce al silenzio di quelle celle e ci mostrano le difficoltà di ribellarsi alle ingiustizie all’interno di un’istituzione totale come il carcere, ma è anche l’occasione per interpellare direttori di carceri, magistrati di sorveglianza e altri operatori del settore per analizzare il cambiamento che questa sentenza ha imposto: sorveglianza dinamica, ampliamento delle misure alternative e introduzione della messa alla prova per adulti.
Le misure introdotte nel post -Torreggiani funzionano? La condannata Italia ha superato la sua messa alla prova?
Da allora sono stati compiuti alcuni passi in avanti grazie a interventi prevalentemente di carattere emergenziale, con una momentanea riduzione della popolazione carceraria, ma non è stato risolto in modo strutturale e definitivo il problema del sovraffollamento per ristabilire le condizioni essenziali dello Stato di diritto.
A quasi sette anni dalla condanna della Corte Europea, infatti, pare che nulla sia cambiato. Continua ad aumentare costantemente il numero dei detenuti presenti nelle carceri italiane: al 30 novembre 2019, secondo i dati forniti dal ministero della Giustizia, sono 61.174 a fronte di 46mila posti.
Aumentano anche le detenute madri con figli al seguito, sono 52 con 56 bimbi (erano 49 con 52 bimbi un mese fa). Intanto si dirada il dibattito sulle pene alternative al carcere, come la detenzione domiciliare, l’affidamento ai servizi sociali, la probation (o messa alla prova) ovviamente quando ci sono le condizioni previste. Peraltro, le statistiche sono a favore di tale prospettiva, e gli studiosi di diritto penale unanimemente considerano il carcere come l’extrema ratio e non come strumento per tranquillizzare la società o peggio per guadagnare consenso.
La conseguenza logica dell’atteggiamento securitario porta a rendere le prigioni una “discarica sociale” di coloro che sono già ai margini della società (come attesta il numero di tossicodipendenti e di migranti nelle carceri). Infatti, nonostante il numero dei reati sia in calo, offuscati dal mantra della “certezza della pena” non ci si accorge che in carcere le persone ci vanno per davvero, anche per piccolissimi reati.
Suicidio in carcere: l’umanità dimenticata
Buttandoli in una cella non siamo in grado di intercettare la disperazione di quelli che non resistono: dall’inizio dell’anno sono 45 i casi di suicidio su un totale di 120 morti nelle patrie galere. “Partiamo da un presupposto: il carcere in generale, in quanto istituzione totale che tende ad annullare le individualità, le propensioni e le attitudini del singolo dando risposte uguali a problematiche diverse, è di per sé un’istigazione al suicidio” dice Rita Bernardini.
“Ma una cosa è per noi del Partito Radicale chiarissima: i responsabili di queste violazioni dei diritti umani fondamentali devono essere individuati e denunciati in ogni sede, confidando molto nelle giurisdizioni superiori, come è stato per la memorabile sentenza Torreggiani che, se ha umiliato il nostro Paese ritenuto responsabile di sistematici trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti, ha almeno restituito loro un po’ di dignità e di sollievo umano e civile”.
Un sistema costoso, sicuramente in termini sociali ma anche in termini strettamente economici. Sono quasi 2,9 miliardi di euro i fondi destinati all’Amministrazione Penitenziaria nel 2019. Ciascun detenuto costa ogni giorno circa 130 euro, la maggior parte dei quali, il 76,47% del totale, riguarda il personale, e in particolare quello di polizia penitenziaria (ben 68,03%).
Solo il 10% è destinato a misure di accoglienza e reinserimento sociale, tra le quali si contano le spese per il vitto, per l’istruzione, per retribuire i detenuti che lavorano. Le misure alternative alla detenzione, che tanto sono avversate negli ultimi tempi poiché confuse con una quasi totale libertà che minerebbe il principio della certezza della pena, costano notevolmente meno del carcere e dimostrano di essere assai più efficaci in termini di abbattimento della recidiva.
E quale sarà attualmente la situazione a Busto Arsizio, uno dei due istituti da cui è scaturita la sentenza Torreggiani? Disarmante, e lascia aperti i margini perché la Corte di Strasburgo emetta nuove pesanti condanne contro l’Italia: 428 persone detenute a fronte di 240 posti.
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