La pandemia che ha colpito il mondo negli ultimi 15 mesi, con l’alternanza di lockdown e allentamenti, ha fatto sorgere lo strano caso del controverso smart working femminile. Questa forma di telelavoro, per molti anni richiesta e desiderata, dopo questo ultimo anno si sta però rivelando un’arma a doppio taglio: quello che, nella intenzioni, voleva essere una valorizzazione di genere rischia invece di riportare la figura femminile nello stereotipo della regina della cucina.
Già nel 2014 era stata presentata una proposta di legge per l’istituzione del “lavoro agile” per riorganizzare un modello di lavoro con orari rigidi perché era stato ideato da uomini per gli uomini, e rispondere alla domanda/esigenza delle lavoratrici di avere più tempo per famiglia, casa e cura personale usando meglio proprio quel tempo che si usa per andare e tornare dall’ufficio. Forti di queste prospettive prima del Covid l’1,5% delle donne e l’1,4% degli uomini lavoravano alcuni giorni della settimana in smart working ma la pandemia ha accentuando la disparità tra i sessi, come evidenzia un’indagine che attesta che le smart worker sono diventate il 16,9% contro il 12,8% degli uomini.
Con il lockdown il lavoro agile si è trasformato in un telelavoro a oltranza per molte donne che quotidianamente hanno fatto buon uso della loro qualità multitasking imparando a destreggiarsi tra la pulizia della casa, la lavatrice, la cucina tre volte al giorno, la spesa da fare, le riunioni su zoom, la gestione dei figli piccoli o alle prese con la didattica a distanza e ovviamente nessuno straordinario remunerato né buoni pasto acquisiti. Risulta evidente che l’abbattimento di tempo e costi del pendolarismo ha però in questa emergenza sanitaria accentuato e favorito l’insorgere di disturbi d’ansia, di un peggioramento in generale della salute, la sensazione di smarrimento e di isolamento.
Alcuni studi rivelano che il lavoro femminile sarebbe a rischio; sarà quindi fondamentale trovare un nuovo equilibrio dal momento che una volta che l’emergenza pandemica sarà terminata, anche il lavoro sarà cambiato per sempre e lo smart working sarà sempre più diffuso.
Questa continua ricerca di una congrua posizione nel mondo del lavoro da parte delle donne mi riporta a un’altra battaglia femminile cioè quella per il suffragio universale. Dal 10 marzo 1946, prima volta che le donne si recarono ai seggi per esprimere il loro voto amministrativo, il mondo femminile ha avuto sempre una maggiore importanza sulla scena politica ma non ancora sufficiente; infatti proprio questo inverno con la nascita del governo Draghi si è riaccesa la disparità di sesso dopo la nomina dei ministri e la mancata equità di quote rosa.
Personalmente però, da donna, mi chiedo se sia giusto tutto questo parlare di parità attraverso le quote rosa… penso che le donne debbano arrivare ad ottenere incarichi di rilievo per meriti propri e che quindi non sia giusto ridurre la parità a una questione di numeri e quote rosa. Proprio come è avvenuto qualche settimana fa con la nomina di Elisabetta Belloni come direttore generale del Dis, Dipartimento delle Informazione per le sicurezza della Repubblica: il suo incarico a capo dei Servizi Segreti non è una questione di quote rosa ma è un ruolo che si è guadagnata grazie al suo ottimo curriculum lavorativo.
I dati rivelano che in 75 anni di storia della Repubblica italiana le donne al governo sono state circa il 6,5% e colpisce che spesso i loro ruoli siano legati ai temi della cura quali la salute, la scuola, il sociale. Ma questo fatto è asseribile come “discriminazione di genere” o è leggibile come un riconoscimento di certi valori prettamente femminili come dolcezza, sensibilità, capacità di ascolto, di organizzazione, di praticità e di mediazione? Pensando al governo in carica e alle donne a capo di Ministeri importanti come la Giustizia e gli Interni –ma anche alla nomina della già citata Belloni- propenderei per la seconda opzione, anche se quando è nato questo governo da più parti si è tornato a parlare di scarsità di rappresentanza femminile. Questi discorsi mi riportano nel passato, a quando il genere rappresentava una diversificazione sociale e culturale: esso rivelava attività, ruoli e credenze che nei secoli hanno contribuito ad accentuare la divisione del mondo maschile da quello femminile.
Quando ero piccola meccanicamente ripetevo, cantando e ballando, le parole della canzone del film “Mary Poppins” del 1964, ma ambientato a Londra nel 1906: “Non puoi arrestarci o maschio son finiti i tempi tuoi. E’ un solo grido unanime: femmine, a noi! Ben presto anche in politica seguire ci dovrai, se il voto ancor ci neghi, per te saranno guai!” Quell’allegro ritornello dopo anni mi è tornato in mente dando un senso ed un significato storico perché anche in Italia le donne si impegnarono per raggiungere il suffragio universale combattendo una lunga battaglia che era iniziata già nell’Ottocento. Prima dell’Unità d’Italia solo in alcune regioni le donne votavano ma non sempre erano eleggibili; con l’unificazione del 1861 tutti i diritti di voto garantiti localmente furono aboliti dando per scontata una netta esclusione delle donne dalla vita politica.
Con la prima Guerra Mondiale l’assetto sociale cambiò perchè le donne dovettero sostituire gli uomini che erano partiti per il fronte prendendo il loro posto in lavori e in attività che per tradizione erano riservati al genere maschile. Questo dato è la riprova che importanti eventi storici come guerre, carestie e pandemie inevitabilmente portano cambiamenti strutturali, sociali e lavorativi, proprio come sta succedendo oggi con il Covid-19 e lo smart working che sembra aver mutato definitivamente l’assetto lavorativo, come ho accennato all’inizio dell’articolo.
Dopo la Grande Guerra il Governo, dovendo riconoscere l’impegno femminile di quegli anni, il 9 marzo 1919 promulgò la legge Sacchi con la quale si eliminava la predominanza dell’uomo nella famiglia e fu approvato l’ordine del giorno Sichel che prevedeva l’ammissione delle donne al voto. Ma a causa della chiusura anticipata della legislatura questa e le altre leggi “in attesa di approvazione” decaddero.
Negli anni successivi ci furono ulteriori tentativi ma senza esiti proficui, fino alla Seconda Guerra Mondiale quando le donne si fecero nuovamente spazio tra le mansioni maschili con una rinnovata convinzione nelle loro capacità e una maggiore consapevolezza nel perseguire i loro ideali.
Man mano che l’Italia veniva liberata dall’occupazione, nel dibattito politico entrava sempre più la questione del riconoscimento di pari diritti alla donna forte dell’impegno dimostrato durante la Guerra; dopo pochi mesi i partiti si dimostrarono propensi all’estensione del voto anche alle donne e col decreto Bonomi, dal nome del Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia, il 30 gennaio1945 si discutesse proprio di questo tema.
La maggioranza dei partiti fu favorevole e così il 2 febbraio 1945, in Italia, entrò in vigore il suffragio universale femminile con almeno 21 anni d’età. Il decreto Bonomi tuttavia prevedeva solo l’elettorato attivo per le donne, trascorse un altro anno prima che le donne italiane – di almeno 25 anni – potessero godere dell’eleggibilità.
Tutte le donne italiane votarono, quindi, per la prima volta il 2 giugno 1946, anche se alcune avevano già espresso le loro preferenze qualche mese prima durante le elezioni amministrative del 10 marzo che coinvolsero 5722 comuni e che riscossero una larga partecipazione con un’affluenza dell’89 per cento. Circa 2 mila candidate vennero elette nei consigli comunali e Ninetta Bartoli fu la prima sindaca d’Italia.
Alle elezioni politiche, svolte assieme al referendum istituzionale monarchia-repubblica del 2 giugno, le donne elette furono 21: cinque di queste parteciparono all’elaborazione del progetto di una Costituzione Repubblicana. Il primo gennaio del 1948 entrò in vigore la nuova Costituzione.